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Esteri / Inchiesta

Gli affari lungo le frontiere. Inchiesta sugli appalti pubblici per il contrasto all’immigrazione “clandestina”

In Tunisia, Libia, Niger, Egitto e non solo. Così lo Stato italiano tramite il ministero dell’Interno finanzia imbarcazioni, veicoli, idranti per “ordine pubblico”, formazione delle polizie e sistemi automatizzati di identificazione. Ecco per chi la frontiera rappresenta un buon affare

Tratto da Altreconomia 211 — Gennaio 2019
Un soldato nigerino nei pressi di Madama, nel Nord-Ovest del Niger, a pochi chilometri dal confine con la Libia - © Dominique Faget/Afp/Getty Images

Uno dei luoghi chiave del “contrasto all’immigrazione clandestina” che l’Italia conduce lungo le rotte africane non si trova a Tunisi, Niamey o Tripoli, ma è in un piccolo comune del Veneto, in provincia di Rovigo, affacciato sul Canal Bianco. È ad Adria, poco distante dal Po, che ha sede “Cantiere Navale Vittoria”, un’azienda nata nel 1927 per iniziativa della famiglia Duò -ancora oggi proprietaria- specializzata in cantieristica navale militare e paramilitare. Si tratta di uno dei partner strategici della Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere, insediata presso il ministero dell’Interno, per una serie di commesse in Libia e Tunisia.

La Direzione è il braccio del Viminale in tema di “gestione” dei flussi provenienti da quei Paesi ritenuti di “eccezionale rilevanza nella gestione della rotta del Mediterraneo centrale” (parole della Farnesina). Quella “rotta” conduce alle coste italiane: Libia e Tunisia, appunto, ma anche Niger e non solo. E quel “pezzo” del Viminale si occupa di tradurre in pratica le strategie governative. Come? Appaltando a imprese italiane attività diversissime tra loro per valore, fonti di finanziamento, tipologia e territori coinvolti. Un principio è comune: quello di dar forma al “contrasto”, sul nostro territorio o di frontiera. E per questi affidamenti ricorre più volte una formula: “Il fine che si intende perseguire è quello di collaborare con i Paesi terzi ai fini di contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina”. Tra gli ultimi appalti aggiudicati a “Cantiere Navale Vittoria” (ottobre 2018) spicca la rimessa in efficienza di sei pattugliatori “P350” da 34 metri, di proprietà della Guardia nazionale della Tunisia. Tramite gli atti della procedura di affidamento si possono ricostruire filiera e calendario.

Il cantiere di Adria (RO) della “Cantiere Navale Vittoria”, azienda partner del ministero dell’Interno in Libia e in Tunisia, nata nel 1927 per iniziativa della famiglia Duò. Opera in tutti i comparti della costruzione navale con oltre 800 imbarcazioni realizzate

Facciamo un salto indietro al giugno 2017, quando i ministeri degli Esteri e dell’Interno italiani sottoscrivono un’“intesa tecnica” per prevedere azioni di “supporto tecnico” del Viminale stesso alle “competenti autorità tunisine”. Obiettivo: “Migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”, inclusi la “lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. La spesa prevista -12 milioni di euro- dovrebbe essere coperta tramite il cosiddetto “Fondo Africa”, istituito sei mesi prima con legge di Stabilità e provvisto di una “dotazione finanziaria” di 200 milioni di euro. L’obiettivo dichiarato del Fondo è quello di “rilanciare il dialogo e la cooperazione con i Paesi africani d’importanza prioritaria per le rotte migratorie”. Le autorità di Tunisi hanno fretta, tanto che un mese dopo l’intesa tra i dicasteri chiedono all’Italia di provvedere subito alla “rimessa in efficienza” dei sei pattugliatori. Chi li ha costruiti, anni prima, è proprio l’azienda di Adria, e da Tunisi giunge la proposta di avvalersi proprio del suo “know how”. La richiesta è accolta. Trascorre poco più di un anno e nell’ottobre 2018 l’appalto viene aggiudicato al Cantiere per 6,3 milioni di euro. L’“attività di contrasto all’immigrazione clandestina”, scrive la Direzione immigrazione e frontiere, è di “primaria importanza per la sicurezza nazionale, anche alla luce dei recenti sbarchi sulle coste italiane di migranti provenienti dalle acque territoriali tunisine”. I pattugliatori da “consegnare” risistemati alla Tunisia servono quindi a impedire o limitare gli arrivi via mare nel nostro Paese, che da gennaio a metà dicembre di 2018 sono stati 23.122 (di cui 12.976 dalla Libia), in netto calo rispetto ai 118.019 (105.986 dalla Libia) dello stesso periodo del 2017.

A quel Paese di frontiera l’Italia non fornisce (o rimette in sesto) solamente navi. Nel luglio 2018, infatti, la Direzione del Viminale ha stipulato un contratto con la Totani Company Srl (sede a Roma) per la fornitura di 50 veicoli Mitsubishi 4×4 Pajero da “consegnare presso il porto di Tunisi”. Il percorso è simile a quello dei sei pattugliatori: “Considerata” l’intesa del giugno 2017 tra i ministeri italiani, “visto” il Fondo Africa, “considerata” la richiesta dei 50 mezzi da parte delle autorità nordafricane formulata nel corso di una riunione del “Comitato Italo-Tunisino”, “vista” la necessità di “definire nel più breve tempo possibile le procedure di acquisizione” per “garantire un dispiegamento efficace dei servizi di prevenzione e di contrasto all’immigrazione clandestina”, eccetera. E così l’offerta economica di 1,6 milioni di euro della Totani è ritenuta congrua.

Capita però che alcune gare vadano deserte. È successo per la fornitura di due “autoveicoli allestiti ‘idrante per ordine pubblico’” e per la relativa attività di formazione per 12 operatori della polizia tunisina (352mila euro la base d’asta). “Al fine di poter supportare il governo tunisino nell’ambito delle attività di contrasto all’immigrazione clandestina” è il passe-partout utilizzato anche per gli idranti, anche se sfugge l’impiego concreto. Seppur deserta, gli atti di questa gara sono interessanti per i passaggi elencati. Il tutto è partito da un incontro a Roma del febbraio 2018 tra l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti e l’omologo tunisino. “Sulla base” di questa riunione, la Direzione del Viminale “richiede” di provvedere alla commessa attraverso un “appunto” datato 27 aprile dello stesso anno che viene “decretato favorevolmente” dal “Sig. Capo della Polizia”, Franco Gabrielli. Alla gara (poi non aggiudicata) si presenta un solo concorrente, la “Brescia Antincendi International Srl”, che all’appuntamento con il ministero delega come “collaboratore” un ex militare in pensione, il tenente colonnello Virgilio D’Amata, cavaliere al merito della Repubblica Italiana. Ma è un nulla di fatto.

A Tunisi vengono quindi consegnati navi, pick-up, (mancati) idranti ma anche motori fuoribordo per quasi 600mila euro. È del settembre 2018, infatti, un nuovo “avviso esplorativo” sottoscritto dal direttore centrale dell’Immigrazione -Massimo Bontempi- per la fornitura di “10 coppie di motori Yamaha 4 tempi da 300 CV di potenza” e altri 25 da 150 CV. Il tutto al dichiarato fine di “garantire un dispiegamento efficace dei servizi di prevenzione e di contrasto all’immigrazione clandestina”.

Come per la Tunisia, anche in Libia il ritmo è scandito da “intese tecniche” tra ministeri “per l’uso dei finanziamenti” previsti nel Fondo Africa. Parlamento non pervenuto

Poi c’è la Libia, l’altro fronte strategico del “contrasto”. Come per la Tunisia, anche in questo contesto il ritmo è scandito da “intese tecniche” tra ministeri di Esteri e Interno -Parlamento non pervenuto- “per l’uso dei finanziamenti” previsti nel citato Fondo Africa. Una di queste, datata 4 agosto 2017, riguarda il “supporto tecnico del ministero dell’Interno italiano alle competenti autorità libiche per migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. L’“eventuale spesa prevista” è di 2,5 milioni di euro. Nel novembre 2017 se n’è aggiunta un’altra, rivolta a “programmi di formazione” dei libici del valore di 615mila euro circa (sempre tratti dal Fondo Africa). Quindi si parte dalle intese e poi si passa ai contratti.

Scorrendo quelli firmati dalla Direzione immigrazione e polizia delle frontiere del Viminale tra 2017 e 2018, e che riguardano specificamente commesse a beneficio di Tripoli, il “fornitore” è sempre lo stesso: Cantiere Navale Vittoria. È l’azienda di Adria -che non ha risposto alle nostre domande- a occuparsi della rimessa in efficienza di svariate imbarcazioni (tre da 14 metri, due da 35 e una da 22) custodite a Biserta (in Tunisia) e “da restituire allo Stato della Libia”. Ma anche della formazione di 21 “operatori della polizia libica” per la loro “conduzione” o del trasporto di un’altra nave di 18 metri da Tripoli a Biserta. La somma degli appalti sfiora complessivamente i 3 milioni di euro. In alcuni casi, il Viminale dichiara di non avere alternative al cantiere veneto. Lo ha riconosciuto la Direzione in un decreto di affidamento urgente per la formazione di 22 “operatori di polizia libica” e la riconsegna di tre motovedette a fine 2017. Poiché Cantiere Navale Vittoria avrebbe un “patrimonio informativo peculiare”, qualunque ricerca di “soluzioni alternative” sarebbe “irragionevole”. Ecco perché in diverse “riunioni bilaterali di esperti” per la cooperazione tra Italia e Libia “in materia migratoria”, oltre alla delegazione libica (i vertici dell’Amministrazione generale per la sicurezza costiera del ministero dell’Interno) e quella italiana (tra cui l’allora direttore del Servizio immigrazione del Viminale, Vittorio Pisani), c’erano anche i rappresentanti di Cantiere Navale Vittoria.
Se i concorrenti sono pochi, la fretta è tanta. In più di un appalto verso la Libia, infatti, la Direzione ha argomentato le procedure di “estrema urgenza” segnalando come “ulteriori indugi”, ad esempio “nella riconsegna delle imbarcazioni”, non solo “verrebbero a gravare ingiustificatamente sugli oneri di custodia […] ma potrebbero determinare difficoltà anche di tipo diplomatico con l’interlocutore libico”. È successo nell’estate 2018 anche per l’ultimo “avviso esplorativo” da quasi 1 milione di euro collegato a quattro training (di quattro settimane) destinati a cinque equipaggi “a bordo di due unità navali da 35 metri, un’unità navale da 22 metri e un’unità navale da 28 metri di proprietà libica”, “al fine di aumentare l’efficienza di quel Paese per il contrasto dell’immigrazione illegale”. Lo scopo è fornire una “preparazione adeguata su ogni aspetto delle unità navali”. Della materia “diritti umani” non c’è traccia.

Questa specifica iniziativa italiana deriva dal Memorandum d’Intesa con la Libia sottoscritto a Roma dal governo Gentiloni (Marco Minniti ministro dell’Interno), il 2 febbraio 2017. Il nostro Paese si era impegnato a “fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”. È da lì che i governi di Italia e Libia decidono di includere tra le attività di cooperazione anche l’erogazione dei corsi di addestramento sulle motovedette ancorate a Biserta.

Ai primi di maggio del 2018, il Viminale decide di accelerare. C’è l’“urgenza di potenziare, attraverso la rimessa in efficienza delle imbarcazioni e l’erogazione di corsi di conduzione operativa, il capacity building della Guardia Costiera libica, al fine di aumentare l’efficienza di quel Paese per il contrasto dell’immigrazione illegale”. Anche perché, aggiunge il ministero, “alla luce degli ultimi eventi di partenze di migranti dalle coste libiche”, “appare strettamente necessario ed urgente favorire il pieno ripristino dell’efficienza delle competenti Autorità dello Stato della Libia nell’erogazione dei servizi istituzionali”. E così a fine giugno 2018 viene pubblicato il bando: i destinatari sono “operatori della polizia libica” e non invece le guardie costiere. Il ministero ha dovuto però “rimodulare” in corsa l’imposto a base d’asta della gara (da 763mila a 993mila euro). Perché? Il capitolato degli oneri e il verbale di stima relativi al valore complessivo dell’intera procedura sarebbero risultati “non remunerativi” per l’unico operatore interessato: Cantiere Navale Vittoria Spa, che avrebbe comunicato “di non poter sottoscrivere un’offerta adeguata”.

Le risorse per quest’ultimo appalto non arrivano dal Fondo Africa ma da uno dei sei progetti finanziati in Libia dall’Unione europea tramite il “Fondo Fiduciario per l’Africa” (EU Trust Fund), istituito a fine 2015 con una dotazione di oltre 4 miliardi di euro. Quello che ci riguarda in particolare s’intitola “Support to integrated Border and Migration Management in Libya – First Phase”, del valore di oltre 46 milioni di euro. Mentre l’Ue è il principale finanziatore, chi deve implementarlo in loco, dal luglio 2017, è proprio il nostro ministero dell’Interno. Che è attivo in due aree della Libia: a Nord-Ovest, a Tripoli, a beneficio delle guardie costiere libiche (tramite la costituzione di un centro di coordinamento per le operazioni di ricerca e soccorso in mare e per la dichiarazione di un’area di ricerca e soccorso in mare autonoma), e una a Sud-Ovest, nella regione del Fezzan, nel distretto di Ghat, per incrementare la capacità di sorveglianza, “in particolare nelle aree di frontiera terrestre con il Niger, maggiormente colpita dall’attraversamento illegale”. È previsto inoltre un “progetto pilota” per istituire una sede operativa per circa 300 persone, ripristinando ed equipaggiando le esistenti strutture nella città di Talwawet, non lontano da Ghat, con tre avamposti da 20 persone l’uno.

A un passo da lì c’è il Niger, l’altra tessera del mosaico. Alla metà di dicembre 2018, non risultano appalti in capo alla Direzione frontiere del Viminale, ma ciò non significa che il nostro Paese non sia attivo per supportare (anche) la gestione dei suoi confini. A metà 2017, infatti, l’Italia ha destinato 50 milioni di euro all’EU Trust Fund per “far fronte alle cause profonde della migrazione in Africa/Finestra Sahel e Lago Ciad”, con un’attenzione particolare al Niger. Si punta alla “creazione di nuove unità specializzate necessarie al controllo delle frontiere, di nuovi posti di frontiera fissa, o all’ammodernamento di quelli esistenti, di un nuovo centro di accoglienza per i migranti a Dirkou, nonché per la riattivazione della locale pista di atterraggio”. In più, dal 2018 è scesa sul campo la “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger” (MISIN) che fa capo al ministero della Difesa e ha tra i suoi obiettivi quello di “concorrere alle attività di sorveglianza delle frontiere”. Il primo corso “per istruttori di ordine pubblico a favore della gendarmeria nigerina” si è concluso a metà ottobre 2018. Pochi mesi prima, a luglio, era stata sottoscritta un’altra “intesa tecnica” tra Esteri e Difesa per rimettere in efficienza e cedere dieci ambulanze e tre autobotti. Finalità? “Il controllo del territorio volto alla prevenzione e al contrasto ai traffici di esseri umani e al traffico di migranti, e per l’assistenza ai migranti nell’ambito delle attività di ricerca e soccorso”: 880mila euro circa. Il Niger è centrale: stando all’ultima programmazione dei Paesi e dei settori in cui sono previsti finanziamenti tramite il “Fondo Africa” (agosto 2018, fonte ministero degli Esteri), il Paese è davanti alla Libia (6 milioni contro 5 di importo massimo preventivato).

La Route national 1, che collega la capitale del Niger, Niamey, ad Agadez. Il Paese è strategico per le iniziative di gestione e contrasto dei flussi migratori. Che non sempre sono del tutto accessibili. A questo proposito, il 28 settembre 2018, il tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha “ordinato” al nostro ministero degli Esteri e della cooperazione internazionale di “esibire” il testo dell’accordo di cooperazione tra Italia e Niger, stipulato nel settembre 2017, dando ragione ad Asgi, Cild e NAGA – © Giacomo Zandonini

Inabissatosi in Niger, il ministero dell’Interno riemerge in Egitto. Anche lì vigono “accordi internazionali diretti al contrasto dell’immigrazione clandestina” sostenuti dall’Italia. La loro traduzione interessa da vicino la succursale italiana della Hewlett-Packard (HP). Risale infatti a fine 2006 un contratto stipulato tra la multinazionale e la Direzione del Viminale “per la realizzazione di un Sistema automatizzato di identificazione delle impronte (AFIS) per lo Stato dell’Egitto”, finalizzato alle “esigenze di identificazione personale correlate alla immigrazione illegale”: oltre 5,2 milioni di euro per il periodo 2007-2012, cui se ne sono aggiunti ulteriori 1,8 milioni per la manutenzione ininterrotta fino al 2017 e quasi 500mila per l’ultima tranche, 2018-2019. HP non ha avversari -come riporta il Viminale- in forza di un “accordo in esclusiva” tra la Hewlett Packard Enterprise e la multinazionale della sicurezza informatica Gemalto “in relazione ai prodotti AFIS per lo Stato dell’Egitto”. Affari che non si possono discutere: “L’interruzione del citato servizio -sostiene la Direzione- è suscettibile di creare gravi problemi nell’attività di identificazione dei migranti e nel contrasto all’immigrazione clandestina, in un momento in cui tale attività è di primaria importanza per la sicurezza nazionale”. Oltre alla partnership con HP, il ministero dell’Interno si spende direttamente in Egitto. Di fronte alle “esigenze scaturenti dalle gravissimi crisi internazionali in vaste aree dell’Africa e dell’Asia” che avrebbero provocato “massicci esodi di persone e crescenti pressioni migratorie verso l’Europa”, la Direzione centrale immigrazione (i virgolettati sono suoi) si è fatta promotrice di una “proposta progettuale” chiamata “International Training at Egyptian Police Academy” (ITEPA). Questa prevede l’istituzione di un “centro di formazione internazionale” sui temi migratori per 360 funzionari di polizia e ufficiali di frontiera di ben 22 Paesi africani presso l’Accademia della polizia egiziana de Il Cairo. Il “protocollo tecnico” è stato siglato nel settembre 2017 tra il direttore dell’Accademia di polizia egiziana ed il direttore centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere. Nel marzo 2018, il capo della Polizia Gabrielli è volato a Il Cairo per il lancio del progetto. “Il rispetto dei diritti umani -ha dichiarato in quella sede- è uno degli asset fondamentali”.

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, incontra il presidente egiziano, Abd al-Fattah al-Sisi, a Villa Igiea in occasione della Conferenza per la Libia del novembre 2018 – governo.it

“La legittimità, la finalità e la consistenza di una parte dei finanziamenti citati con le norme di diritto nazionale e internazionale sono stati studiati e in alcuni casi anche portati davanti alle autorità giudiziarie dai legali dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi, asgi.it)”, spiega l’avvocato Giulia Crescini, parte del collegio dell’associazione che si è occupato della vicenda. “Quando abbiamo chiesto lo stato di implementazione dell’accordo internazionale Italia-Libia del febbraio 2017, il ministero dell’Interno ha opposto generiche motivazioni di pericolo alla sicurezza interna e alle relazioni internazionali, pertanto il ricorso dopo essere stato rigettato dal Tar Lazio è ora pendente davanti al Consiglio di Stato”. La trasparenza insegue la frontiera.


in dettaglio

“LEONARDO” (FINMECCANICA) E GLI INTERESSI SULLE FRONTIERE

In Tunisia, Libia, Egitto e Niger, l’azienda Leonardo (Finmeccanica) avrebbe in corso “attività promozionali per tecnologie di sicurezza e controllo del territorio”. Alla richiesta di dettagli, la società ha risposto di voler “rivitalizzare i progetti in sospeso e proporne altri, fornendo ai Governi sistemi e tecnologie all’avanguardia per la sicurezza dei Paesi”. Leonardo è già autorizzata a esportare materiale d’armamento in quei contesti, ma non a Tripoli. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, infatti, ha approvato la Risoluzione 2420 che estende l’embargo sulle armi nel Paese per un altro anno. “Nel prossimo futuro -fa sapere l’azienda di cui il ministero dell’Economia è principale azionista- il governo di accordo nazionale potrà richiedere delle esenzioni all’embargo ONU sulle armi, per combattere il terrorismo”. Alla domanda se Leonardo sia coinvolta o operativa nell’ambito di iniziative collegate al fondo fiduciario per l’Africa dell’Unione europea e in particolare al programma da 46 milioni di euro coordinato dal Viminale, in tema di frontiere libiche, l’azienda ha fatto sapere che “in passato” avrebbe “collaborato con le autorità libiche per lo sviluppo e implementazione di sistemi per il monitoraggio dei confini meridionali, nonché sistemi di sicurezza costiera per il controllo, la ricerca e il salvataggio in mare”. Attualmente la società starebbe “esplorando opportunità in ambito europeo volte allo sviluppo di un progetto per il controllo dei flussi migratori dall’Africa all’Europa, consistente in un sistema di sicurezza e sorveglianza costiero con centri di comando e controllo”.


Export in Libia. Il “caso” Prodit

Nei primi sei mesi del 2018, attraverso l’Autorità nazionale UAMA (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento), l’Italia ha autorizzato l’esportazione di “materiale d’armamento” verso la Libia per un valore di circa 4,8 milioni di euro. Nel 2017 questa cifra era zero. Si tratta, come impone la normativa in tema di embargo, di materiali “non letali”. L’ammontare è minimo se paragonato al totale delle licenze autorizzate a livello mondiale dall’Italia tra gennaio e giugno 2018 (3,2 miliardi di euro). Chi esporta è una singola azienda, l’unica iscritta al Registro Nazionale delle Imprese presso il Segretariato Generale del ministero della Difesa: Prodit Engineering Srl. In Libia non ha esportato armi ma un veicolo terrestre modificato come fuoristrada e materiali utilizzabili per sminamento.

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