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Cultura e scienza / Intervista

Yuri Ancarani. Venezia non è (solo) romantica

Il film “Atlantide” racconta il cambiamento della Laguna attraverso gli occhi di un adolescente che vive i lati “bui” di Sant’Erasmo. La sua storia scalfisce l’immaginario. La nostra intervista al regista

Tratto da Altreconomia 247 — Aprile 2022
Daniele Barison, l’attore protagonista di “Atlantide”, l’ultimo film di Yuri Ancarani presentato alla Biennale del cinema di Venezia nel settembre 2021 © Leonardo Scotti

“L’immaginario collettivo è la Venezia hollywoodiana: non rappresenta la città, ma ne siamo contaminati. È un luogo che ha una storia irresistibile. E poi è arrivato Woody Allen a raccontarci la Venezia romantica (era il 1996, con “Everyone says I love you”, ndr). Invece, quando io sto un mese a Venezia, dopo un po’ sono distrutto: è anche una città dark, cattiva, forte, che muove molto. Per uscire da questo labirinto ho dovuto guardare la realtà con gli occhi di un adolescente”. Nelle parole del regista Yuri Ancarani sono gli occhi di Daniele, il protagonista del suo ultimo film, “Atlantide”, e quelli dei suoi coetanei, Maila, Bianka, Alberto e Jacopo: i giovanissimi abitanti dell’isola di Sant’Erasmo, nella Laguna Nord di Venezia, “impegnati a esplorare un’esistenza di ricerca del piacere che si esprime nel culto del barchino”, come si legge nella sinossi. Un “naufragio psichedelico” ambientato non a caso in Veneto -“un territorio che è in pericolo”, sottolinea il regista- che ha richiesto quattro anni di lavorazione e un lungo ambientamento sulla superficie della Laguna. “Il mio lavoro mi porta spesso a Venezia, ma come una persona che arriva dalla stazione, da dietro -osserva Ancarani-. Non ti rendi conto che Venezia è un’isola. Invece Daniele arriva come si deve arrivare in questa città: dall’acqua”.

Proprio Daniele, in una scena del film, dice che il barchino è la sua casa. In una città dove il tema dell’abitare è così importante (sono 50.458 i residenti nel centro storico di Venezia al 31 dicembre 2021; erano 51.266 solo un anno prima, ndr), il film ci mostra un’altra prospettiva: abitare l’acqua.
YA Per tutti i veneziani il barchino è stata la casa; tutti hanno fatto quella vita lì. All’inizio delle riprese c’era chi mi accompagnava con la sua barca ristrutturata in legno, vogando, usando solo i remi. Le stesse persone che ti dicono che Venezia va vissuta di notte e lentamente, sono dei “pentiti” che a 16 anni avevano il barchino e “truccavano” il motore, facendo a gara a chi andava più forte (il limite di velocità nella Laguna è tra i 5 e i 20 chilometri all’ora, a seconda delle zone, ndr). I veneziani fanno una vita impossibile per chiunque non sia nato lì. In vaporetto non ci si può muovere liberamente, un taxi a noleggio costa troppo per spostarsi tra un’isola e l’altra, e non puoi noleggiare un barchino se non lo sai guidare: servono competenze, permessi, ci vuole il posto barca. Devi nascerci, solo così sei libero di vivere la Laguna come vuoi, di abitare l’acqua.

La relazione con i giovani è fondamentale in questo lavoro fatto in “presa diretta”. Come hai lavorato al film?
YA Lo abbiamo detto con la canzone finale, quella dei titoli di coda, che urla: “Vivere, vivere, vivere” (la colonna sonora è di Lorenzo Senni con Francesco Fantini e Sick Luke, ndr). Ma è il punto di partenza: per fare il film ho voluto vivere esattamente come loro, andare oltre a ciò che viene raccontato quotidianamente su Venezia per arrivare a scoprire tutto quello che non si potrà mai raccontare. Sant’Erasmo, ad esempio, è un’isola che piace molto ai veneziani, frequentatissima. Nonostante questo, da loro mi sentivo spesso dire che “a Sant’Erasmo non c’è nulla”; d’altra parte io ero un forestiero da tenere a distanza. Allora ho deciso di trasferirmi lì. Penso che mettere in luce l’ombra sia uno dei compiti di un artista, qualcosa di vicino a una forma di cura: mostrare ciò che tutti hanno di fronte, ma che nessuno vuole vedere.

“Penso che mettere in luce l’ombra sia uno dei compiti di un artista, qualcosa di vicino a una forma di cura: mostrare ciò che tutti hanno di fronte, ma che nessuno vuole vedere”

E nemmeno ascoltare, come le musiche fastidiose che escono a tutto volume dai barchini.
YA Anche l’abitudine di vivere in barchino con la musica è rimasta la stessa. Prima c’erano le autoradio mangianastri o cd-player, adesso il bluetooth con la connessione dal telefono. È cambiata la tecnologia, ma la storia è sempre la stessa. Ed è stata proprio questa “meccanica della musica” ad avvicinarmi ai giovani. È il modo che ho trovato per dialogare con loro, provando ad apprezzare la musica che si ascolta oggi a 20 anni. Quei brani diventano la colonna sonora della tua vita, è così per tutte le generazioni. Io a quell’età ascoltavo la techno, sono romagnolo; e infatti continuo ad ascoltarla. Ma mi interessa la sottocultura e ho fatto uno sforzo per capire perché la musica che ascoltano, la trap, è interessante per loro. E sono rimasti sorpresi. Capire la meccanica della musica e non giudicare i loro comportamenti: è anche questo il mio metodo di ricerca.

Il film si apre con due riprese della Venezia “agricola”: un campo di carciofi a Sant’Erasmo e l’orto dei frati minori nell’isola di San Francesco del Deserto.
YA Questo è anche un territorio agricolo e mi piaceva partire dalla terra, dove però oggi c’è tanta macchina: da tempo indago questo rapporto dei maschi con la tecnologia e il loro conseguente allontanamento da madre natura, con l’esasperazione delle violenze. Il desiderio di potenza, l’idea di dover essere vincenti, la considerazione delle donne come un optional del motore, i riti iniziatici per diventare adulti. È proprio nell’adolescenza che dobbiamo intervenire per cambiare quest’attitudine violenta che poi trasporteranno nella vita adulta. Perciò il film si apre con un trauma: un adulto trancia dei fiori viola (sono fiori di carciofo, ndr), perché quei fiori non possono piacere ai ragazzini. Poco dopo c’è un frate che strappa la gramigna dal campo, che rappresenta i giovani attorno a lui. Tutti i pochi adulti presenti nel film sono in contatto con la terra, ma non hanno possibilità di comunicare con questi giovani.

Yuri Ancarani è nato a Ravenna nel 1972. Ha debuttato alla Biennale di Venezia nel 2010 con il film “Il Capo”. Nel 2016 con “The Challenge” ha vinto il premio speciale della Giuria al Locarno film festival © Leonardo Scotti

Il paesaggio violato è un tema che attraversa diversi tuoi lavori, penso a “Il capo” (2010), ambientato sullo sfondo delle Alpi Apuane, dove cavatori e macchine pesanti sono guidati da un linguaggio di gesti.
YA “Il capo” è un manifesto dell’antropocene. Da oltre dieci anni lavoro sul comportamento maschile e sulle sue violazioni, in tutti gli ambiti. Bisogna tenere presente che le cave di marmo sono usate continuamente come set cinematografico, sono considerate luoghi molto belli e suggestivi. Ma se ci si ferma a pensare, stiamo vedendo un uomo che tira giù una montagna. O meglio: non tutti lo vedono, il cinema può mostrarlo.

Stai lavorando a una trilogia, una serie intitolata “The roots of violence”. I primi due episodi sono ambientati nello stadio di San Siro e nel carcere di San Vittore, a Milano. Il terzo è ambientato a San Giorgio. È l’isola di San Giorgio Maggiore, nella Laguna di Venezia?
YA No. San Vittore e San Siro sono due luoghi rilevanti a Milano, San Giorgio in questo caso è il nome della prima banca pubblica che stampava carta moneta, fondata a Genova verso il 1600. Il film è ambientato in un caveau, essendo un luogo delicato nel film il vero nome è rimasto anonimo. È una trilogia su tre edifici contemporanei -la banca, il carcere e lo stadio- che hanno in comune la stessa struttura architettonica, in cemento, le sbarre e la polizia che controlla gli ingressi. Sono luoghi che ci parlano di come si vive oggi: il controllo sociale, infatti, è basato sulla pena e sull’intrattenimento. 

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