Diritti / Reportage
Visita a Zarzis, porto di mare, approdo di resistenza
La storia del piccolo paese costiero di pescatori, in Tunisia, è gloriosa. Umanità, soccorso, tutela della memoria del mare e dei suoi caduti senza nome. Il racconto di un medico che ha lavorato a bordo delle navi umanitarie nel Mediterraneo e nei porti di sbarco
La prima volta che ho sentito il nome di Zarzis, piccolo paese costiero di pescatori in Tunisia, al confine con la devastazione libica, è stato nel 2017, durante una lunga missione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Dei suoi pescatori ci arrivavano gli echi delle gesta in mare: ogni imbarcazione alla deriva dalla Libia veniva soccorsa pur nella limitatezza dei pescherecci, perché lì la solidarietà degli uomini di mare non conosceva il freno del profitto. E quando ai naufraghi incontrati l’anima era già volata via, i pescatori raccoglievano e davano sepoltura in terra, pur sapendo che quei resti nessuno sarebbe venuto a reclamarli, mai.
Con i compagni di ventura iniziammo a guardarli come veri e propri eroi di resistenza quando, nell’agosto 2017, fecero con le loro barche una sorta di barriera per impedire il tentativo di attracco della nave anti-migranti C-Star.
Legati a doppio filo all’associazione dei pescatori vi erano poi due uomini che speravo di poter incontrare: credo, inconsciamente, che volessi semplicemente tirarne un lembo di giacca per confermare la loro esistenza. Non sono mai stata brava a trattenermi, soprattutto se c’è da dare una buona notizia. Esistono davvero.
Luglio 2018. “Zarzis port, Zarzis port, ici Open Arms”. La mia ultima ultima missione in mare. Da più di due settimane, nelle acque portuali di Zarzis stava in rada la nave Sarost 5 con a bordo 40 migranti, in attesa di autorizzazione all’attracco. Ogni giorno, i pescatori facevano la spola per portare acqua, viveri e beni di prima necessità. La missione Open Arms decise di andare in supporto. Non attraccammo, ma per due giorni restammo nelle stesse acque in ponte radio con la Sarost 5 e il porto. Al ventiduesimo giorno finalmente la macchina dell’accoglienza mosse gli ingranaggi e i 40 naufraghi toccarono terra. Noi salpammo nuovamente verso Est. Aggiunsi un altro post-it alla lista dei luoghi da visitare a terra.
Da Tunisi a Zarzis il viaggio è una sequenza ben sincronizzata di mezzi, tra treno, autobus e luage, alias taxi collettivo. Un giorno di viaggio ben investito, perché la prospettiva che si offre sulla Tunisia ripaga la fatica di qualche sedile un po’ vissuto. Guardandosi intorno, soprattutto mettendo a fuoco le zone costiere, si colgono reminiscenze dei fasti che furono e soprattutto gli effetti della desertificazione turistica compiutasi nel post-rivoluzione. Negli anni 90 i grandi complessi alberghieri, confezionati in seducenti pacchetti settimanali, venivano consegnati ogni giorno casa per casa dalle TV via cavo. Oggi molte strutture sono in stato d’abbandono e in quelle sopravvissute il personale continua a offrire, per salari irrisori, decorosi sogni settimanali a gruppi di europei che attraversano liberamente i cancelli aeroportuali. Anche davanti agli occhi dei tunisini scorrono, ogni giorno, scene del sogno europeo, ma il flusso tra questi due mondi avviene a senso unico. E a loro è toccato in sorte il punto di arrivo, non della partenza. Non di quella “accettabile” quanto meno.
Sono tanti oggi i ragazzi che prendono la via del mare, direzione Lampedusa per lo più. La carestia di posti di lavoro, e comunque i salari irrisori dei pochi fortunati da un lato, la delusione politica dall’altro, sono tra i motivi che più ricorrono nelle discussioni con gli anziani, che non approvano la fuga, e che vivono con angoscia l’idea che il mare possa inghiottirsi anche quei loro figli, oltre ai tanti sub-sahariani che riaffiorano sulle coste a cadenza sempre più ravvicinata. Con le elezioni di ottobre, una sostanziale maggioranza di giovani ha espresso opinione forte e compatta, nuovamente dopo i movimenti del 2011. Difficile però immaginare un’inversione di rotta, letteralmente, a breve.
Arrivo a Zarzis e inizio le mie ricerche. Visito il porto, con grande emozione nel rivedere tutte quelle barche, i pescatori seduti con le reti in grembo a dipanare, riparare. Sono le 10 del mattino e tutti questi uomini hanno già una durissima giornata di lavoro alle spalle. Mi basta camminare e scambiare qualche saluto con loro. Cerco di mettere tutta la riconoscenza che posso negli occhi. Alla torre di controllo sorrido. Quante volte ci siamo scambiati messaggi in quei due torridi giorni. E come cambia tutto a guardarlo dal mare.
Ho con me una guida Routard sulla Tunisia presa in biblioteca a Marsiglia. Si rivela utilissima nel momento in cui vi trovo indicazioni sul Museo della memoria del mare e dell’uomo. La guida dice che il suo creatore, Lihidheb Mohsen, offre visite guidate previo contatto telefonico. Trovo un indirizzo e un numero di telefono. Mohsen è uno degli uomini che sto cercando e riesco a contattarlo grazie all’aiuto di alcuni anziani incontrati in un bar a pochi passi dall’indirizzo della Routard. Qui tutti conoscono Mohsen, lo chiamano con grande rispetto “il Signor Mohsen”. Dopo due ore sono di fronte a quest’uomo che ha lo sguardo di chi ha visto oltre e ha capito. Ex postino, guida me e il mio compagno di viaggio attraverso un percorso ricavato tra una miriade di oggetti che il mare ha restituito nel corso di 23 anni, e che lui continua a raccogliere e custodire, ci spiega. Sono cose che parlano. Raccontano di strade percorse per chilometri e chilometri a piedi, di grida d’aiuto rinchiuse in una bottiglia di vetro, di speranze interrotte. Migliaia di scarpe, consumate e rimesse insieme chissà quante volte da mani pazienti perché non avevano concluso ancora il loro viaggio.
Lui dice che le scarpe raccontano la strada percorsa, il deserto e la Libia. Ci mostra una infradito rattoppata a più riprese, un’altra tenuta insieme da un pezzo di spago. Alcune le tiene appese, e quando attraversa la stanza le sfiora per rinnovarne il movimento e con questo il ricordo di chi le ha portate. Mohsen crea, disponendo gli oggetti in spazi aperti e a volte con l’aiuto di altri, e rappresenta così le idee che quegli stessi oggetti gli ispirano. Un giubbotto di salvataggio in cui ha riposto due boe rotonde, una più grande e una più piccola, rievoca con forza lacerante la recente immagine di una mamma morta con in braccio il suo bambino sotto la costa di Lampedusa. Scrive, Mohsen, poesie bellissime che vanno oltre la frontiera tunisina. Parla anche di Riace con grande speranza, in una delle sue piccole opere. Quando ascolta che cosa sia successo a quel raro esempio di virtù di cui siamo ancora tanto orgogliosi, sorride, rassicurandoci. L’uomo, che lui chiama con affetto Mamadou, non lo si potrà fermare. Arriverà dove il suo destino vorrà che arrivi.
Visto dalla fotocamera di un drone, il Museo della memoria del mare e dell’uomo apparirebbe verosimilmente come una piccola discarica ben organizzata. Attraversato con il cuore del suo custode a far da guida, risulta piuttosto una sorta di limbo in cui si resta contagiati dalla speranza.
Prima di congedarci, Mohsen attiva il contatto con Chamseddine Marzoug. I due si conoscono, e da anni agiscono con la stessa passione e dedizione a una causa comune: il rispetto dell’uomo, soprattutto nella morte. Chamseddine è l’altra persona di cui voglio appurare l’esistenza.
Con un po’ di fortuna, il tassista a cui mi rivolgo per chiedere informazioni conosce esattamente dove voglio andare, e meglio ancora, è un volontario della Mezzaluna Rossa, e dunque accetta di accompagnarci. Il luogo è un poco fuori dalla città, non lontano da uno stadio di calcio.
Incontriamo lungo la strada Chamseddine che si unisce a noi nella corsa in taxi. È come lo immaginavo, con lo stesso cappello che indossa nei molti video in cui giornalisti di tutto il mondo gli hanno chiesto di raccontare del suo impegno che porta avanti da più di 15 anni.
Lasciata la strada principale, si attraversa un breve tratto di sterrato fino a un’estesa lingua di terra che arriva, sabbiosa, fino al mare. “Cimitero degli Sconosciuti”, recita in molte lingue un pannello di legno dipinto a mano.
Siamo arrivati, ed il silenzio che regna entra sotto la pelle. Chamseddine qui, da anni, dà sepoltura a tutti gli uomini, le donne, i bambini che hanno perso la vita in mare. A volte si tratta di pochi resti, che il mare restituisce anche dopo anni, ma per lui non fa alcuna differenza. Se anche ritrovasse una singola cellula, le darebbe sepoltura con la stessa dignità. Nel cimitero des inconnues non dettano legge le religioni. Per ogni essere umano che vi troverà riposo, Chamseddine conserva un ricordo.
Restiamo alcuni attimi senza parlare. La vista di tutti questi cumuli di terra sabbiosa mi fa tornare in mare, e un pensiero mi si inchioda in fronte: ma dove eravamo quel giorno, perché non siamo arrivati per voi? In un anno di ricerche e soccorso ho constatato il decesso di cinquanta persone. Venti solo nel mio primo recupero. Di questi, diciotto erano tutti ragazzi giovanissimi, morti di asfissia e ustioni provocate dalla miscela di acqua e benzina che si accumulano nei fondi dei gommoni. L’immagine di tutti quei corpi irrigiditi, stesi sul deck della nave, rimane impressa come icona dell’assurdo destino a cui la deriva europea sta condannando una generazione.
Torno al momento e cerco una via di fuga da quel baratro. Decido di aprire il ricordo della barricata pacifica contro il razzismo di quella inutile nave dall’anima nera. Chamseddine sorride, e mi racconta con allegra fierezza di come avesse tenuto le comunicazioni con la C-Star. “Perché il mare è il mare, e non si può lasciare in difficoltà nessuno”. Le offerte dunque da parte di Zarzis: acqua, cure sanitarie, cibo, un supporto meccanico? Di qualsiasi cosa avessero avuto bisogno, Zarzis se ne sarebbe occupata. Lì, però, in mare aperto. Che una nave anti-migranti, a Zarzis non sarebbe entrata.
Tornando verso Tunisi, in un unico lungo viaggio di sei ore in louage, colgo sorrisi tra i nostri compagni di viaggio. Che riescano a leggermi tra i pensieri? A Zarzis ho trovato le conferme che speravo. Si tratta solo di cercarle, fuori e dentro di noi.
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