Terra e cibo / Approfondimento
Vino e territorio, la chiave per la rinascita della Denominazione
Nate negli anni Sessanta, DOC (Denominazione di origine controllata) e DOCG (Denominazione di origine controllata e garantita) devono essere ripensate, come suggerisce una lettera inviata a metà ottobre al ministro dell’Agricoltura della Federazione italiana vignaioli indipendenti. Le pressioni del mercato e le storie di chi ha deciso di uscirne.
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Quest’anno l’Italia supererà la Francia. La vendemmia 2016, secondo le previsioni dell’Unione Italiana Vini, Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) e del ministero delle Politiche agricole, porterà a produrre 48,5 milioni di ettolitri di vino. Questa performance garantirà al nostro Paese la leadership mondiale, davanti ai francesi, che si fermerebbero a 43 milioni. Il valore aggiunto del vino, però, non è la quantità, ma la qualità: nel 2014, quando ne vennero poco più di 42 milioni di ettolitri, il mercato -che comprende anche l’indotto- valeva 12 miliardi di euro; e il 60 per cento, cioè 7,2 miliardi, era appannaggio dei “vini a Denominazione”, ovvero di quelle bottiglie che fanno riferimento a una Denominazione di origine controllata (DOC) o a una Denominazione di origine controllata e garantita (DOCG), che identificano il nome geografico di una zona viticola particolarmente vocata, e sono frutto di un processo di produzione che segue un disciplinare validato dal ministero delle Politiche agricole. Alle DOC (74) e alle DOCG (333) corrispondevano nel 2014 13,7 milioni di ettolitri, secondo i dati ISMEA, e ciò significa che un terzo della produzione genera il 60% dei ricavi.
“Le Denominazioni nascono negli anni Sessanta con un bellissimo spirito, quello di dar garanzia al consumatore e creare coesione, gruppo, tra i produttori” sottolinea Alessandro Dettori, che fa vino certificato biologico e biodinamico a Sennori (SS), in Sardegna. Dettori è membro dell’associazione Renaissance des Appellations-Italia: riunisce produttori naturali, e fa leva sul rapporto indissolubile tra denominazioni (appellations, in francese) e terroir, territorio. “Il problema principale di tante DOC italiane è invece che sono basate sul vitigno”. Sulle bottiglie di Dettori, per questo, la DOC non c’è: è stato tra i primi a lavorare in modo artigianale l’uva Cannonau, ma non accetta di imbottigliare “Cannonau di Sardegna”, una denominazione “troppo generalista, perché sulla mia isola meravigliosa ci sono tantissimi terroir, e l’estensione della DOC a tutta la Regione risponde a una logica di produzione di massa, alle esigenze delle 40 grandi aziende che c’erano negli anni Novanta”. Le Tenute Dettori imbottigliano un Igt Romangia. Tecnicamente, le “indicazioni geografiche tipiche” sono uno scalino sotto le DOC. Quella utilizzata da Dettori, però, identifica in modo più chiaro il territorio, dato che il disciplinare riconosce come zona di produzione delle uve appena cinque Comuni: Castelsardo, Osilo, Sennori, Sorso e Valledoria, tutti in provincia di Sassari. Anche se i “nomi” (come Cannonau) sono fondamentali per accompagnare un vino sui mercati esteri -in termini di valore, l’export vale 5,4 miliardi di euro nel 2015-, da Nord a Sud, isole comprese, molti tra i vignaioli naturali scelgono di uscire dalla Denominazione, o non ci entrano proprio. Come Gaetano Morella, che coltiva alberelli di Primitivo a Manduria, in provincia di Taranto. Sulle sue bottiglie la DOC non c’è mai stata. “Sedici anni fa, quando abbiamo iniziato, non ci riconoscevamo in ciò che vedevamo intorno a noi. Le cantine sociali e il Consorzio che avrebbe dovuto tutelare il vitigno e il territorio sono stati centro di raccolta e smistamento dei finanziamenti europei per il rinnovo degli impanti, che ha significato la scomparsa dei vecchi impianti ad alberello, che hanno una resa di cinque volte inferiore alle viti coltivate a spalliera”. Se 15 anni fa il 50% dei vigneti era ancora ad alberello, oggi ne resta un dieci per cento. L’ultima modifica al disciplinare di produzione, nel 2010, rappresenta secondo Morella la sintesi di un “lavoro che definirei di ‘stutela’, perché hanno inserito la possibilità di utilizzare un 15% di vitigni migliorativi”. Il Primitivo di Manduria, cioè, non è più vinificato in purezza, da solo. “Hanno anche abbassato il ‘grado alcolico’ per poter rivendicare la Denominazione, portandolo a 13°, quando si fatica a stare sotto i 15° con questo vitigno esuberante” spiega Morella, secondo il quale la possibilità di “tagliare” il Primitivo segue una logica di produzione industriale e rappresenta un ampliamento della denominazione “fatta sulla carta e non sugli ettari”. Nelle sua azienda agricola preferisce lavorare a mano vigne vecchie, tra i 30 e i 90 anni. E il suo Primitivo esce tre anni dopo la vendemmia (mentre il disciplinare della DOC ne permette la vendita dopo appena sei mesi).
La fascetta della DOC cinge invece i vini della famiglia Pieropan, vignaioli a Soave (VR) dal 1880. Il signor Leonildo, però, non si è mai iscritto al Consorzio, nato nel 1972. Qualche anno fa ha anzi creato un’associazione, i ‘Vignaioli indipendenti del Soave’, associata alla FIVI (Federazione italiana vignaioli indipendenti). Gli aderenti sono dieci. Lavorano per “ridare dignità al Soave che si trova sugli scaffali a 3 euro a bottiglia”. C’è un eccesso di produzione, e il Consorzio non tutela chi ha scelto la qualità. “L’associazione -spiega Pieropan- sta portando avanti una battaglia perché il Consorzio, o meglio le coop che ne controllano il 90 per cento, vorrebbero obbligare i produttori a ‘declassare’ il venti per cento delle uve prodotte”. Declassare significa non poter utilizzare tutte le uve per produrre vino DOC. “Ma le nostre bottiglie sono interamente vendute, e questo creerebbe un danno; se le grandi cantine sociali e non hanno un problema, si parla di 100mila ettolitri in giacenza, dovrebbero riflettere sulla propria incapacità di fare un giusto mercato”. I vignaioli indipendenti dovrebbero ottenere per il 2016 una deroga rispetto alla proposta avanzata dal Consorzio alla Regione Veneto, ma resta “un problema di monopolio delle scelte. Per questo la FIVI ha elaborato una proposta di revisione delle modalità di rappresentanza all’interno dei Consorzi, cancellando la formula anacronistica basata su ettari o bottiglie prodotte, che non è democratica. Abbiamo un’identità da tutelare, perché la DOC Soave porta con sé il nome di un territorio” sottolinea Pieropan.
A metà ottobre FIVI ha indirizzato al ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina una lettera e una bozza del nuovo articolo 17 (terzo comma) del decreto legislativo 61/2010, quello che regola la materia: al fine di “riequilibrare la formazione della volontà consortile” si propone che “i voti in assemblea spettino, in misura fissa, per il 30% alla produzione delle uve, per il 30% alla trasformazione delle uve e per il 30% all’imbottigliamento”, mentre “il restante 10% sarebbe distribuito, in ragione dei volumi prodotti nell’anno vendemmiale precedente dai soggetti rientranti in una o più delle tre categorie”. Questo andrebbe anche a riconoscere -secondo FIVI- “il ruolo peculiare che nel panorama produttivo italiano svolge il soggetto che nella propria azienda svolga tutte e tre le funzioni”, ovvero il vignaiolo, garantendo a questi soggetti di poter aspirare a un posto nei consigli d’amministrazione dei Consorzi, fondamentale per indirizzarne le politiche verso una effettiva valorizzazione del territorio.
I limiti nell’organizzazione attuale dei Consorzi è vissuto anche da chi crede fermamente nella propria Denominazione di riferimento, come la famiglia Keber, che lavora nel Collio: Kristian Keber affianca il padre Edi nella conduzione dell’azienda di famiglia, a Cormons (GO). Edi è stato a lungo consigliere d’amministrazione del Consorzio. Nel 2008 la famiglia ha fatto una scelta radicale: produrre un solo vino, Collio Bianco, “un uvaggio di Malvasia, Ribolla e Tocai, quello storico del nostro territorio”. Oggi, spiega Keber, la varietà d’uva più prodotta in Collio è invece il Pinot Grigio, “che è molto più facile da vendere, ma lo puoi fare qui come in pianura in Australia”. Mentre scriviamo è in corso l’iter per il riconoscimento di una DOC addirittura tri-regionale, il “Pinot Grigio delle Venezie”, tra Veneto, Trentino e Friuli-Venezia Giulia: “Non è il Pinot Grigio che porterà avanti la qualità della viticoltura in Friuli. Questo è un progetto industriale, e basta: la Regione non ha mai deciso di lavorare sui territori, quello che facciamo noi. Non ha deciso di puntare sulle varietà autoctone. Nemmeno sul Friulano. Il Pinot Grigio diventerà molto simile al Prosecco: aumenterà il valore della terra e ci guadagnerà chi vende l’uva, tutto qua”.
Il vignaiolo Nino Barraco è di Marsala, ma anche se coltiva i vitigni necessari -Grillo, Catarratto, Inzolia e Damaschini- non produce Marsala DOC, “perché è una Denominazione ormai ‘anacronistica’, tanto che questo vino non si porta più in tavola, non è distribuito ed è usato solo in cucina”. Secondo Barraco, che è stato per alcuni mesi -fino alla primavera del 2016- assessore all’Agricoltura del Comune di Marsala (TP), e si era dato come obiettivo il riconoscimento di una DOCG per il Marsala, “per renderlo ‘contemporaneo’ dovremmo cambiare il sistema di conduzione delle vigne, ritornando agli alberelli, e fare un vino di sola uva”. Un vino di territorio, una vera DOC. E non solo un ingrediente tra tanti della carne in scatola.
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