Diritti / Reportage
Viaggio al campo di Azraq, in Giordania, dove il futuro dei rifugiati siriani è sempre più incerto
Inaugurato dieci anni fa, è stato progettato come alternativa al campo informale di Zaatari, il più grande del Paese. La scelta di posizionarlo in pieno deserto e dotarlo di un sofisticato sistema di sicurezza, però, lo hanno reso una prigione a cielo aperto. Non solo per i 42mila rifugiati “residenti” ma anche per gli operatori umanitari che ci lavorano. Intanto la crisi siriana nella regione sta ricevendo sempre meno attenzione
Per farsi un’idea del campo per rifugiati di Azraq, in Giordania, alcuni stereotipi orientalisti possono aiutare. Deserto stepposo, radi cespugli sui lati della strada, cammelli e pecore al pascolo sotto il sole cocente, mulinelli di sabbia e pastori avvolti in un turbante in sella a stanchi asinelli. È ciò che si incontra sulla strada da Zirqa, l’ultimo centro urbano venendo da Amman, a Ovest, per Azraq, uno dei due campi formali per rifugiati siriani nel Paese.
Una volta all’ingresso del campo, tuttavia, per capire dove si è arrivati è più utile far riferimento al genio militare. “Azraq camp for refugees”, si legge su un cartellone in inglese all’ingresso, e senza una mappa è difficile immaginare che al di là delle reti metalliche ci sia un insediamento umano. Organizzato in cinque villaggi, i caravan bianchi disposti ordinatamente in quattordici chilometri quadrati di deserto ospitano circa 42mila rifugiati siriani, che insieme ad altri circa 1,3 milioni di concittadini vivono in Giordania da oltre tredici anni.
Tra questi c’è M., che con sua moglie e quattro figli risiede ad Azraq da otto anni. “Quando siamo arrivati in Giordania abbiamo scelto di stare ad Amman perché offriva più opportunità e l’idea del campo non ci piaceva”, racconta ad Altreconomia. Ma il costo della vita e le poche possibilità di lavoro per i rifugiati -che per legge possono lavorare soltanto in settori e professioni di “poco interesse” per i giordani, come agricoltura, manifattura, ristorazione, ambiente e costruzione- hanno convinto M. e la sua famiglia a spostarsi ad Azraq
Inaugurato dieci anni fa, il campo è stato progettato come alternativa al campo informale di Zaatari, il più grande della Giordania. La scelta di posizionarlo in pieno deserto e dotarlo di un sofisticato sistema di sicurezza, però, hanno reso Azraq una prigione a cielo aperto. Non solo per i residenti, ma anche per gli operatori umanitari che ci lavorano, i quali devono sottostare ogni giorno a rigorosi protocolli da parte dell’autorità di gestione del campo, la Syrian refugees affairs directorate (Srad), sotto il ministero dell’Interno. Tra le altre cose, anche una semplice riunione di comunità per coinvolgere i rifugiati nella risposta umanitaria, richiede spesso la presenza di un ufficiale, fatto che previene la possibilità che i partecipanti si possano esprimere liberamente.
Inoltre ad Azraq c’è il “famoso Village 5”, un’area protetta da filo spinato e mezzi militari dove quasi 10mila siriani sono di fatto detenuti per “motivi di sicurezza nazionale”. Sono varie le ragioni per cui si può essere deportati lì, dalla denuncia per mancato pagamento di debiti al lavoro informale, o per crimini ben più gravi, ma di come vi si vive in pochi han voglia di parlarne. Come A., che dall’anno scorso aiuta M. nel suo negozio. Dopo due anni trascorsi al “Village 5”, non vuole pensare più al “tempo perso ed è solo grato di esserne uscito”.
Oggi, insieme a M. e altre quattro persone, gestiscono un ferramenta “che in realtà è un po’ di tutto, ripariamo e costruiamo biciclette, soprattutto elettriche, il mezzo di trasporto più comune ad Azraq”. Con le temperature già insolitamente alte attorno ai 40 gradi a giugno, spostarsi da un villaggio all’altro in bici elettrica rappresenta certamente un vantaggio, e per alcuni è anche un’opportunità di guadagno. A un costo di circa un dinaro a tragitto (1,3 euro), i cosiddetti “tassisti di Azraq” dimostrano la capacità dei siriani di adattarsi e inventarsi dal nulla un lavoro, considerando anche che i materiali elettrici e le batterie sono generalmente proibiti dalle autorità, anche se simili restrizioni si superano spesso tramite “commissioni” ai funzionari del campo. Tuttavia, M. conferma che anche questo mercato ormai è in declino.
Da quando nel settembre 2023 sono cominciati i tagli all’assistenza in denaro per oltre 50mila famiglie di rifugiati in tutto il Paese da parte dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e dal Programma alimentare mondiale (Wfp), che rappresentano l’unica fonte di reddito per la maggior parte della popolazione di Azraq, M. non sa se rimanere ancora in Giordania. “Qui non abbiamo costi di affitto e utenze. Ma nell’ultimo anno le cose sono peggiorate, sia nel campo che fuori”.
Oltre a Unhcr e Wfp sono diverse le organizzazioni che hanno chiuso i loro programmi per mancanza di fondi negli ultimi mesi. In generale, considerando i contributi Onu e dei singoli Stati donatori per la Giordania, se le risorse a disposizione nel 2013 sfioravano il miliardo di dollari, per il 2024 a malapena si superano i 200 milioni. Ma è in tutta la regione che la crisi siriana sta ricevendo sempre meno attenzione. Secondo l’Unhcr, soltanto l’11% delle sue operazioni sono finanziate per il 2024, mettendo sempre più a rischio aiuti per oltre 12 milioni di siriani tra Turchia, Giordania, Libano, Iraq, Egitto e all’interno della stessa Siria.
A fine maggio a Bruxelles l’annuale conferenza dei donatori della risposta umanitaria siriana ha confermato la “donor fatigue” degli ultimi anni, ovvero la “stanchezza” nel finanziare una crisi che è lungi dall’avere una soluzione politica, economica e sociale. A tredici anni dalle prime proteste contro il governo di Damasco, lo scorso anno il presidente Bashar Al Assad è stato riammesso nella Lega araba e diversi Paesi, tra cui l’Italia, hanno riaperto le proprie sedi diplomatiche, riabilitando così il regime siriano nella comunità internazionale. Ma a ciò non ha fatto seguito il ritorno dei propri cittadini, preoccupati dalle ritorsioni del regime e dal clima di insicurezza che risente degli oltre mezzo milione di morti provocati da anni di repressione, terrorismo e guerra per procura tra potenze regionali e internazionali.
Inoltre, nonostante il regime di Assad provi a mostrare al mondo di avere il controllo del Paese con le recenti elezioni legislative vinte a larga maggioranza dal Ba’ath, il suo partito, il Nord-Est della Siria rimane in mano alle Sdf (Forze democratiche siriane) guidate dai curdi, mentre i ribelli islamisti sostenuti dalla Turchia controllano parti del Nord-Ovest. A ciò è importante aggiungere gli ultimi dati della Banca mondiale che mostrano la povertà estrema in aumento in tutto il Paese, e due recenti sentenze di tribunali francesi contro il regime siriano. La prima riguarda il caso di due cittadini damasceni, morti per torture nelle carceri governative tra il 2014 e il 2017, per il quale sono stati condannati all’ergastolo (in contumacia) tre alti funzionari del regime. Mentre la seconda è la conferma della Corte d’appello francese della richiesta del mandato di arresto per il presidente siriano Al Assad emessa da un tribunale minore l’anno scorso. “L’immunità da capo di Stato non si applica per accuse di complicità in crimini di guerra”, ha affermato la corte. Si tratta in entrambi i casi di decisioni dalla portata storica perché per la prima volta i crimini commessi da rappresentanti delle istituzioni siriane vengono riconosciuti dal diritto di Stati terzi.
In un simile scenario, per i siriani in Giordania la scelta è tra rischiare la propria vita tornando nel proprio Paese oppure rimanere in contesto che risente della guerra in corso nella Striscia di Gaza in termini economici e sociali e dove sembra che i rifugiati non siano più benvenuti. Recenti dichiarazioni del governo al riguardo sono più che emblematiche. “La Giordania continua a sostenere i rifugiati e li aiuta in proporzione ai fondi che riceve”, ha affermato il ministro dell’Interno, Mazen Al Faraya, sottolineando che la priorità del governo sono i suoi cittadini, non i rifugiati, e che senza nuovi fondi Amman non potrà garantire i servizi di base ai siriani.
“All’inizio ci sentivamo accolti dalla popolazione locale, ma oggi le cose sono cambiate -confida M.-. Tanti siriani sono sfruttati al lavoro, non vengono retribuiti, e se richiedono i propri diritti vengono denunciati e rischiano di finire al Village 5. Proviamo a mettere da parte più soldi possibili e far studiare i nostri figli, ma se la situazione peggiora, non avremo altra scelta che provare la via dell’Europa”.
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