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Diritti / Opinioni

Una critica alle “scuole boschive”, tra l’idea di scuola pubblica e situazioni d’élite

© Markus Spiske - Unsplash

Renata Puleo, già maestra di scuola elementare e poi dirigente scolastica, rivolge una critica a quelle che definisce “situazioni d’élite” per la scuola dell’infanzia. Richiama la centralità della funzione pubblica, del compito educativo e dello “spazio” della classe, al di là di un mainstream “presuntamente antiautoritario”. Il dibattito è aperto

Pubblichiamo questa riflessione critica di Renata Puleo, con l’auspicio di attivare un dibattito tra opinioni e punti di vista diversi. Buona lettura, la redazione (redazione@altreconomia.it)


Il sottotitolo di questa riflessione potrebbe essere: memoria, esperienza e presunte sperimentazioni. Parto dunque da un breve cenno autobiografico, tratto dalla mia attività di maestra di scuola elementare, l’attuale primaria, dove ho lavorato prima di diventare direttrice didattica e, successivamente, dirigente scolastica.

Pantelleria, 1980, classe quinta di 15 bambine e bambini. Sotto la scuola il mare, intorno la sontuosa campagna coltivata a capperi e vigna, i frutteti protetti dal vento nei giardini circolari di pietra. In aula ci stiamo poco. Siamo sempre in giro, per sentieri e boschetti. I miei alunni (d’ora in avanti utilizzo il maschile come neutro), parlano per lo più il siciliano ibridato da altri imprestiti, poco o nulla sanno di quel che allora era il programma della quinta. Stare all’aperto ci/mi dà la possibilità di sfruttare, per leggere, scrivere (in italiano e non), per fare matematica e svolgere indagine scientifica con ciò che ci circonda, di cui loro sanno tutto. L’aula è il nostro magazzino, erbario e biblioteca ma, soprattutto, il porto intimo dove ci raccogliamo a discutere, a scrivere, a disegnare, a litigare e a risolvere conflitti. Siamo una classe, una comunità epistemica, ricca, emergenziale (emergenza: interazione fra elementi e fattori di un sistema, la cui osservazione prescinde dall’analisi dei singoli elementi).

Una classe, ovvero un gruppo che condivide saperi, linguaggi, giochi, storie, che apprende, si modifica, cresce. Caso, contingenza, contesto unico, capace di senso per me, per i bambini, modello non replicabile. Si parva licet, né Barbiana di Lorenzo Milani, né Vho di Piadena di Mario Lodi, del resto anche questi, casi pressoché assoluti di magistero, malgrado viga oggi per entrambi -completamente decontestualizzata rispetto alla storia sociale- una sorta di mitizzazione, poco utile all’analisi politica dei mali della scuola.

Il senso che ancora oggi ricavo dalla mia esperienza (ovvero: percorso, strada) è che per fare una classe ci vuole un luogo fisico, un’aula e un gruppo che sappia, pure con cambiamenti di situazioni e persone, riconoscersi in un posto. L’insegnante, non deve mai perdere di vista la responsabilità nel gestire quell’emergenza, deve far leva sulla consapevolezza politica dei doveri della sua funzione pubblica. Non un animatore, non un funzionario, non un compagno di brigata, non un capo scout: un maestro.

Scrive Gustavo Zagrebelsky: “La classe è l’insieme in cui i singoli convivono, si confrontano, […] sostegni e solidarietà o anche crudeltà e cattiveria di cui la classe è capace [senza] la finzione degenerata che è la didattica impartita attraverso schermi”. Luogo necessariamente fisico, aula, mura, banchi, lavagna: perché è nella condivisione del posto, nell’avere un posto in cui qualcosa avviene, che un gruppo si struttura, un posto a cui tornare dopo ogni divagare, riconoscibile anche nella monotonia e nella routine (G. Zagrebelsky “La lezione”, Einaudi, Torino 2022).

E vengo allo spunto che dà il titolo a queste righe. La mia scuola campestre era niente altro che scuola, scuola pubblica, quella degli articoli 3, 33, 34 della Costituzione, adattata a un contesto socioeconomico, dove valutavo continuamente lo stato di avanzamento e di inevitabile stasi o regressione del mio lavoro e dell’apprendimento nei bambini ricevuti in affido, in rapporto fiduciario con loro, con le famiglie. Giovani menti su cui lasciare comunque il segno, anche quando il programma non poteva essere espletato e l’esito era quanto meno singolare. I miei alunni rappresentavano su grandi fogli con istogrammi a barre i loro progressi e i loro insuccessi, i voti erano la scala di misura per mostrare in modo veloce e chiaro quel che quel foglio descriveva. Le famiglie? Troppo prese dal lavoro nei campi, o in piccoli commerci, per avere il tempo che oggi i genitori borghesi dedicano a chattare in gruppo, a giudicare senza mestiere adeguato il mestiere del docente. Sono queste famiglie in cui alligna il desiderio di avere per i propri figli scuole senza aula, senza libri, senza quaderni, senza lezioni strutturate e magistrali, insomma le libere scuole boschive, senza zaino (se non per contenere la merenda e la borraccia trend), dove la natura insegna in modo non trasmissivo.

Recentemente il filosofo Marco Maurizi, recensendo un testo di Christian Raimo, partitario della nuova pedagogia e didattica e di Lorenzo Milani, ne critica con arguzia le estremizzazioni: la scuola di aula e del docente valutatore sembrano in Raimo una reductio ad Hitlerum, luoghi e figure adulte di stampo persecutore, e così, con un solo colpo di cancellino, via maestri, banchi e voti (M. Conte “Didattica minima. Anacronismi della scuola rinnovata”, Libreriauniversitaria.it, Padova, capitolo terzo su L. Milani, sul significato politico e sui limiti della sua didattica). Maurizi stigmatizza come Raimo incorra nella contraddizione di valutare il diffondersi delle scuole parentali e nel bosco come un rischio per la scuola pubblica, ma pur sempre esperienze da non liquidare, mantenendosi quindi ben dentro il mainstream presuntamente antiautoritario (C. Raimo “L’ultima lezione. Scuola, democrazia, utopia” Ponte delle Grazie, Milano 2022; nello stesso articolo viene citata una riflessione sulle ipocrisie radical-chic delle scuole nel bosco).

Queste esperienze, chiamate con superficiale approccio epistemologico “sperimentazioni”, non hanno un’ipotesi, sono prive di una teoria che non sia una naïve infarinatura naturalistico-antiautoritaria, non hanno gruppi di controllo, sembrano non aver bisogno di alcuna verifica finale (A. Angelucci, R. Puleo e M. Maurizi). Del resto, si tratta di situazioni d’élite, in genere -per ora- per la scuola dell’infanzia. Dove trovare un bosco in una nostra periferia urbana? Come far partecipare alle camminate istruttive nel verde i genitori che escono di casa all’alba e tornano a sole tramontato? E bambini, studenti non italiani bisognosi proprio di fare squadra con i loro compagni in un luogo che li accolga e li contenga nelle loro paure e preoccupazioni legate alla difficoltà di comunicare? Faremo loro raccogliere le foglie dopo averli portati in pulmino al bosco più vicino? Ma tant’è: il modello serve a fare fuoco incrociato sulla scuola pubblica, fatta di aule, classi, libri e, malgrado l’intensa opera di distruzione perpetrata dagli anni 90, abitata da insegnanti che provano a non essere ignoranti, a lasciare il loro segno, come dicevo, sempre, comunque.

Maestri che non si fanno sedurre dai saperi infantili, né seducono con il proprio, che non giudicano, ma valutano e lavorano sugli errori. La scuola ha una funzione, e una funzione pubblica ha l’insegnante, che non sottostà al diktat del genitore-cliente, ma studia e lavora con piena responsabilità. Scrive Gert Biesta:”L’idea del maestro ignorante [ricavata dal lavoro di J. Rancière] è stata interpretata sulla falsariga del costruttivismo contemporaneo per cui è ovvio affermare che nel campo dell’educazione tutto ruota attorno all’apprendimento degli studenti -ai loro atti di creazione di senso o di comprensione- e che l’unica cosa che gli insegnanti possono fare è facilitare tale creazione di senso” ( G.J.J. Biesta “Riscoprire l’insegnamento” Raffaello Cortina Editore, Milano 2022).

Questo modello di scuola così alternativo e “fricchettone”, non è nemmeno una buona idea di tipo ecologico, né come ecologia della mente (secondo Gregory Bateson fatta di capacità di distinguere contesti e piani logici di pensiero e di azione), né come forma di rispetto del “diritto della natura”, né come buon approccio ai temi drammatici del cambio climatico: semmai vezzi, capricci, mutevolezze di adulti incapaci di reggere il compito educativo (M. Carducci “Natura(diritti della)”, Digesto Discipline Pubblicistiche Utet_Giuridica, Torino 2017).

“Une vraie révolution […] une mutation radicale [est]dans les manières de produir et de vivre […] utopies réelles”. Così scrivono Christian Laval e Francis Vergne: il momento delle pose sperimentali non è più questo, oggi è il momento di ripensare seriamente la democrazia, la rivoluzione, la scuola, istituzione la cui qualità dipende strettamente da quella dei rapporti sociali, economici (C. Laval, F. Vergne “Éducation démocratique. La révolution scolaire à venir”, La Découverte, Parigi 2021).

Renata Puleo vive a Roma. Nel 1971 ha iniziato a insegnare nella scuola elementare, oggi primaria, a Torino, nel quartiere Mirafiori. Direttrice didattica nel 1981, su disposto del decreto legislativo 59 del 1998, ha svolto funzioni di dirigenza scolastica fino al 2011, a Roma. Ha scritto e scrive su tematiche educative e di politica scolastica. Tra i suoi testi recenti, “Valutare senza INVALSI si può. Muri a secco e colate di cemento”, Anicia Ed Roma, 2019, (con) Caterina Angelotti “Dita per leggere. Tatto, vista, udito: il corpo nell’apprendimento della letto-scrittura”, Anicia Ed Roma, 2021, (con) Anna Angelucci “Cos’è un libro? Sull’oblio della lettura nell’era digitale”, Giovanni Fioriti Ed Roma, 2021.

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