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Nella lotta alla dispersione scolastica il governo sbaglia rotta

In Italia più di uno studente su dieci non completa il percorso formativo. Per contrastare il fenomeno il Pnrr stanzia 1,5 miliardi di euro. Si rischiano però fondi a pioggia e interventi che non rispondono alle reali esigenze dei territori

Tratto da Altreconomia 254 — Dicembre 2022
Un’attività di tinkering (una metodologia didattica per l’avvicinamento dei ragazzi alle discipline scientifiche) svolta in orario curricolare all’interno del progetto “Grazia sotto pressione" © Silvia Mastrorillo

In Italia l’abbandono prematuro del percorso scolastico è un’urgenza ma le “soluzioni” proposte dal governo continuano a essere poco lungimiranti. I dati Eurostat fotografano la fragilità del nostro sistema di istruzione che vede più di uno studente su dieci (12,7%) tra i 18 e i 24 anni lasciare gli studi: la media europea è 9,7% e peggio di noi troviamo solo Spagna (13,3%) e Romania (15,3%). Inoltre il nostro Paese vanta il primato per la quota di giovani “né occupati né in formazione” (Neet) che sono il 23% nella fascia tra i 18 e i 24 anni (più 10% rispetto alla media Ue). 

Davanti a statistiche così evidenti, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha previsto più di 1,5 miliardi di euro per azioni di contrasto alla dispersione scolastica. Ma i segnali che arrivano dal modo in cui le prime risorse sono state assegnate non sono positivi. “Si riproduce un modello di ‘fondi a pioggia’ senza tenere conto delle specificità territoriali. Così si rischia di sprecare soldi”, spiega Andrea Morniroli, co-coordinatore del Forum disuguaglianze e diversità e socio della cooperativa Dedalus di Napoli. 

La percentuale di incidenza della dispersione scolastica varia da territorio a territorio: si va dall’8,5% del Friuli-Venezia Giulia al 19,4% della Sicilia a poco meno del 12% in Lombardia. In altri termini: il luogo in cui nasci aumenta le possibilità di abbandonare precocemente la scuola. “Non è solo la qualità della didattica a incidere ma anche gli spazi e i tempi dell’educazione”, spiega Antonella Inverno, responsabile delle Politiche per l’infanzia e l’adolescenza di Save the Children.

L’Ong ha pubblicato nel settembre 2022 lo studio “Alla ricerca del tempo perduto” in cui emerge come il tempo pieno sia uno strumento essenziale: viene garantito a più del 50% degli alunni della primaria in quasi tutte le province del Centro e del Nord mentre al Sud il dato scende al 20%. Una differenza amplificata dal fatto che la percentuale di alunni svantaggiati dal punto di vista socio-economico è del 20% al Nord è del 25% al Sud. Per quanto riguarda i locali mensa si registrano punte dell’80% nelle province toscane di Prato, Firenze, Lucca, Pistoia, nonché ad Aosta e Torino. Per contro Ragusa, Agrigento, Catania registrano percentuali inferiori al 10%, mentre Napoli e Palermo sono sotto il 6%. 

“Dove il tempo pieno e i servizi sono garantiti, gli studenti raggiungono risultati migliori. L’abbiamo riscontrato nel nostro studio anche con riferimento ai dati sulla cosiddetta dispersione implicita”, spiega Inverno. Con questa “etichetta” vengono classificati dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi) coloro che non riescono a raggiungere gli obiettivi previsti entro 13 anni di frequenza a scuola. Nel 2022 questa condizione riguardava il 9,8% del totale, ma i risultati dei test Invalsi sono discussi come strumento di rilevazione di certe dinamiche. 

“In quegli istituti situati in luoghi difficili i test Invalsi non rilevano il lavoro educativo e didattico svolto dagli insegnanti” – Renata Puleo

Tanto che Return on academic research and school (Roars), che si occupa di analizzare le evoluzioni del mondo scolastico, a metà novembre 2022 ha denunciato pubblicamente come i nuovi indicatori di fragilità individuali introdotti da Invalsi proprio per individuare gli istituti a cui destinare più soldi rischiano di “realizzare una profilazione di massa” in cui le famiglie “stanno ricevendo una sorta di certificazione del disagio”. 

“Proprio in quegli istituti situati in luoghi difficili i test non rilevano il lavoro educativo e didattico svolto dagli insegnanti che, per ovvie ragioni, non segue le indicazioni nazionali né tanto meno i quadri di riferimento Invalsi”, osserva Renata Puleo, dirigente scolastica fino al 2011 e autrice di diversi libri sul mondo della scuola italiana. “È chiaro che ogni studente ha una storia a sé e può raggiungere determinati obiettivi con i suoi personalissimi tempi -spiega Inverno-. Ma a mio avviso i test Invalsi restano un indice dell’impatto delle diseguaglianze sociali e territoriali sull’apprendimento”.

Quel che è certo è che questi indicatori sono stati presi in considerazione dal ministero dell’Istruzione nell’attribuire i primi fondi del Pnrr. A fine giugno 2022 l’allora ministro Patrizio Bianchi ha stanziato 500 milioni di euro del “Piano contro la dispersione scolastica e per il superamento dei divari territoriali” destinati a più di tremila scuole con studenti nella fascia tra i 12 e i 18 anni. I “precisi indicatori” individuati dall’allora ministro per assegnare le risorse contrastavano con le indicazioni fornite dal Gruppo di lavoro, istituito dallo stesso Bianchi nel marzo 2022, in cui alcuni esperti avevano indicato differenti criteri di assegnazione. “La distribuzione dei fondi è stata legata esclusivamente a indicatori quantitativi connessi all’abbandono scolastico, in termini di dispersione esplicita e implicita e al numero di alunni -spiega Andrea Morniroli membro del Gruppo di lavoro-. Sappiamo però che la povertà educativa è un fenomeno multifattoriale e vanno prese in considerazione la condizione occupazione dei genitori, l’adeguatezza dei servizi presenti sul territorio e così via. Non è stato fatto”. 

Lo studio “Alla ricerca del tempo perduto” di Save the Children evidenzia come anche gli spazi e i tempi dell’educazione influiscano sulle prestazioni scolastiche degli alunni. Nelle province del Centro e del Nord Italia circa il 50% degli studenti ha la possibilità di accedere al tempo pieno mentre nel Mezzogiorno il dato scende al 20% © Silvia Mastrorillo

Non è un caso, dunque, che questi primi fondi abbiano riguardato quasi esclusivamente le scuole superiori. “Dove il numero di alunni è maggiore e sono più alte le percentuali di abbandono, penalizzando il primo ciclo, dove questo fenomeno ha origine. Quando tu cali dall’alto, con lo stesso sistema, le risorse e non fai un discorso ‘partecipato’ sui territori succede questo”. 

Sulla carta entro il 31 ottobre le scuole avrebbero dovuto presentare un “progetto esecutivo” definendo il team per la prevenzione scolastica e definire “reti e partenariati effettuando una co-progettazione dell’intervento”. A metà novembre, però, mancava ancora la “apposita piattaforma” su cui caricare i progetti formativi. Rispettare la scadenza del 31 dicembre, momento in cui il ministero dovrebbe versare nelle casse degli istituti il 10% dei fondi assegnati in base ai progetti, diventa complesso. “L’Ufficio scolastico regionale ha però potere sui dirigenti scolastici inadempienti che non ottemperano alla presentazione dei progetti e alla spesa dei soldi assegnati -spiega Puleo-. Nessun preside si metterà in questa situazione: si rischia che si facciano progetti in fretta e furia”.

Le scarse linee guida di azione fornite dal ministero, a novembre 2022, destano perplessità. Per quanto riguarda le “modalità di intervento” è previsto il “mentoring online rivolto sia ai giovani a rischio sia a quelli che hanno già abbandonato la scuola” con un rapporto individuale tra docente e allievo per 20 ore totali per coloro a rischio di abbandono scolastico (circa 120mila studenti da coinvolgere), dieci ore per almeno 350mila che hanno già lasciato le aule. “Non è possibile pensare di riagganciare ragazzi che hanno lasciato gli studi in dieci ore di chiamate online -sottolinea Morniroli-. Si spende facilmente ma non è una buona spesa. Bastava chiedere a chi lavora nelle scuole: le piattaforme online possono essere utili ma solo se inserite in percorsi di accompagnamento più generali. Essere in classe è fondamentale”.

L’importanza della presenza in classe la conosce bene Silvia Mastrorillo, educatrice che per la cooperativa Dedalus sta realizzando il progetto “Grazia sotto pressione” all’interno di un istituto comprensivo del quartiere Capuana a Napoli. Un progetto innovativo che prevede la presenza di un educatore per 15 ore settimanali all’interno della classe. “Sono ambienti complessi. La mia partecipazione alle lezioni ha come obiettivo lavorare sul miglioramento delle condizioni emotive del gruppo classe: non si va sui banchi azzerando quello che succede fuori -spiega Mastrorillo-. Lavorare sul clima ha quindi una ricaduta sul piano delle competenze per gli alunni, sulla soddisfazione per i docenti”. Oltre al lavoro in aula, nella sede della cooperativa venivano proposti percorsi individualizzati specifici con doti educative e, laddove necessario, la presa in carico dell’intero nucleo familiare. Il tutto in collaborazione con altri servizi sul territorio. 

Il progetto promosso nel quartiere Capuana è solo uno dei 15 esempi di “Patti educativi territoriali” approfonditi in un report del Forum diseguaglianze e diversità del dicembre 2021. Non è ancora chiaro, però, se queste alleanze già presenti sui territori potranno essere finanziate. Per Morniroli oltre a valorizzare i “patti educativi territoriali” serve rimettere la scuola “al centro della spesa pubblica”. L’Italia infatti spende pochissimo: nel 2021 il 4,3% del Pil, contro una media europea del 5%. “Aumentare gli investimenti è necessario. Certo, a leggere i programmi dell’attuale governo non è facile essere ottimisti: aver aggiunto la parola ‘merito’ al ministero non è di buon auspicio. Oggi la scuola sempre di più non è ascensore sociale ma certifica le diseguaglianze e la diversità tra i territori. Serve un cambio di rotta”. 

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