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Economia / Opinioni

“Un ‘tecnico’ all’Economia”: perché il governo Meloni non discuterà le ricette europee

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È in corso una grande discussione mediatica sulla natura tecnica del prossimo ministro dell’Economia, rispetto alla quale viene spontanea una considerazione: forse la scelta di un tecnico servirà a seguire percorsi già tracciati, rinunciando ancora una volta a soluzioni di politica economica. L’analisi di Alessandro Volpi

C’è un dato eloquente nella Nota di aggiornamento approvata dal governo Draghi dopo la vittoria della destra. Si tratta della previsione di riduzione del deficit. Nella fantomatica Agenda Draghi -declinata nei termini delle previsioni per il futuro- compariva una riduzione dal 2021 al 2023 del deficit dall’11,8 al 3,4%, una vera e propria cura dimagrante da regime di austerità. Nel 2022 tale obiettivo è stato in parte centrato, con la riduzione del rapporto al 5,6% per effetto dell’inflazione, i cui effetti sono stati tuttavia attenuanti dall’incremento della spesa pubblica con il debito, divenuta difficilmente sostenibile in seguito alla decisione della Banca centrale europea (Bce) di alzare i tassi. Ora l’ultimo aggiornamento fatto da Mario Draghi dopo la vittoria di Giorgia Meloni continua a prevedere la riduzione nel 2023 del rapporto fino al 3,4%; dunque una cura da cavallo che significherà una riduzione di spesa o maggiori entrate per quasi 40 miliardi in pieno stile rigorista.

Sembra evidente allora che il prossimo governo Meloni non avrà alcuna intenzione di mettere in discussione le ricette europee, al di là delle dichiarazioni più o meno nazionalistiche. In fondo Draghi e Meloni avevano tracciato la linea già al Meeting di Rimini e la speranza di Enrico Letta di mobilitare contro la nuova destra le cancellerie europee era davvero mal posta. La futura presidente del Consiglio rischia di essere una nuova lady di ferro che al turbocapitalismo non dispiacerà, magari affidando a un “tecnico”, esperto proprio di turbocapitalismo, la poltrona che fu di Quintino Sella. Dalla Nadef, emerge, tra gli altri, un dato chiarissimo. La decisione della Bce di bloccare gli acquisti dei titoli del debito pubblico, a cominciare da quello italiano, ha generato già nel 2022 un conto interessi da pagare per lo Stato italiano di 76 miliardi di euro che per il prossimo anno, con l’impennata dei tassi al di sopra del 4% per i decennali, comporterà un’ulteriore importante crescita per tale voce di spesa pubblica, nonostante le scadenze medio lunghe del nostro debito.

In estrema sintesi è probabile che si torni a pagare circa 80-90 miliardi di euro di interessi, resi necessari per far fronte al collocamento del debito in scadenza pari a 350 miliardi e di quello nuovo per altri 100 miliardi. Dunque la scelta della Bce costringe lo Stato italiano a pagare una trentina di miliardi in più rispetto alla fase degli acquisti operati dalla stessa Bce. Questa decisione, peraltro, avrà ulteriori effetti negativi perché priverà la Banca d’Italia, e quindi in larga misura lo Stato, degli interessi che proprio l’acquisto dei titoli del debito italiano gli garantiva -operando Banca d’Italia come acquirente con le risorse della Bce- e perché il maggior esborso da parte dello Stato per gli interessi non si tradurrà in alcun modo in un incremento del reddito nazionale visto l’esiguo numero di risparmiatori italiani ancora coinvolti nella sottoscrizione del debito del nostro paese.

Per essere ancora più chiari, la scelta della Bce di smettere di comprare debito italiano produrrà un forte incremento della spesa pubblica improduttiva – quella per interessi – sottraendo 30 forse anche 40 miliardi di euro in più rispetto al 2021 ad altre voci ben più rilevanti come sanità e sociale; in pratica un inutile raddoppio della dimensione della Legge di Bilancio. Ma perché la Bce ha cessato gli acquisti di debito? Le risposte canoniche sono, appunto, le solite: il debito pubblico non può crescere sempre, soprattutto in una fase di inflazione che impone invece un rialzo dei tassi e una contrazione della liquidità. Mi sembrano risposte ormai davvero fuori dal tempo che stiamo vivendo e che, tuttavia, i candidati “tecnici” alla carica di ministro dell’Economia non paiono affatto intenzionati ad abbandonare, anzi proprio i loro curricula tecnici li renderanno rigorosi interpreti di una ortodossia destinata ad essere, sul piano della narrazione, negata, almeno in parte, dal  governo Meloni. L’inflazione attuale dipende dalla speculazione finanziaria che non si batte riducendo la liquidità, con effetti devastanti su economie già piegate e su debiti pubblici nazionali sempre più indispensabili per contrastare il crescente impoverimento di fasce estese di popolazione. La strada per battere la finanziarizzazione che genera inflazione è quella di sfoltire l’abnorme pletora di prodotti dell’ingegneria finanziaria che hanno reso i prezzi una variabile impazzita e in larga misura sganciata dall’economia reale. Introdurre un nuovo rigore monetarista, limitando l’azione della Banca centrale europea, vuol dire mettere a repentaglio la tenuta sociale di molti paesi e non centrare l’obiettivo di bloccare l’inflazione finanziaria in grado ormai di procedere anche senza l’allagamento di liquidità degli anni passati, data l’enorme mole di operazioni “allo scoperto”.

Se l’Italia dovrà affrontare il 2023 senza la possibilità di ricorrere ad un debito sostenibile per effetto della scelta della Bce, è molto probabile che sarà priva di risorse per coprire almeno il 40% delle misure necessarie ad affrontare l’esplosione delle bollette e a tentare di adeguare le retribuzioni all’inflazione. Il governo della moneta, avrebbero detto alcuni teorici del passato, non può non avere una forte dimensione politica; se il nuovo governo Meloni si affiderà ai tecnici significherà che la politica ha di nuovo perso a tutto vantaggio della ricerca di vestali dei conti italiani da tutelare di fronte alla tanto criticata Commissione europea. In fondo la politica torna sempre e solo in campagna elettorale.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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