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Economia / Opinioni

Le prime considerazioni economiche sull’esito del voto. E su quello che ci attende

© Markus Spiske - Unsplash

L’inesistente “agenda Draghi” ha rappresentato il mantenimento dello status quo, fatto di disuguaglianze sociali e povertà. Intanto la Bce torna all’era dell’austerità, rischiando di aggravare l’impatto dell’inflazione. Con gli Stati Uniti che ancora una volta scommettono sulla debolezza dell’Ue. L’analisi di Alessandro Volpi

Non è semplice trarre considerazioni chiare, in termini economici, sugli esiti dell’ultima tornata politica. Tuttavia tre mi sembrano più evidenti di altre. La prima ha a che fare con le ragioni della sconfitta del centrosinistra nel suo insieme ed è riconducibile alla fantomatica “agenda Draghi”. Provo a spiegare il perché penso abbia influito, e molto.

L’agenda Draghi è stata il paradigma della volontà di alcune forze politiche di trasformare le elezioni in un plebiscito su Mario Draghi: volete ancora Mario Draghi? Votate per noi. Questa semplificazione ha determinato la composizione degli schieramenti nel centro sinistra e il loro programma, generando tuttavia, una serie di paradossi a cominciare dal fatto che neppure le forze a favore di Draghi hanno composto un’unica coalizione, rompendo subito l’alleanza in nome della maggiore o minore “ortodossia” nei confronti dell’agenda. C’è stato poi il paradosso che la coalizione di centrosinistra ha aperto subito ai cosiddetti “avversari” dell’agenda Draghi, creando un “certo” disorientamento. Ma i limiti veri dell’agenda Draghi erano altri.

Intanto, non esisteva un’agenda Draghi in quanto tale ma esisteva solo Draghi come garante, in pratica senza vincoli, del futuro italiano. In questo senso si configurava un altro limite di quell’agenda: se si trattava di un mero artificio narrativo per sostenere Draghi, allora diventava ben poco credibile che centrosinistra e “terzo polo” non avessero avuto la capacità, anche separatamente, di esprimere un proprio leader in grado di aspirare a ricoprire la carica di presidente del Consiglio.

C’era poi un ultimo, decisivo limite: un Paese piegato, con disuguaglianze sociali in continua crescita, con una povertà dilagante resa drammatica dall’inflazione non aveva bisogno di rigorosi custodi dell’equilibrio finanziario che si traduceva inevitabilmente nella riproposizione di un modello adottato dal 2011 in avanti. L’inesistente agenda Draghi è stata percepita come un mantenimento dello status quo sociale, con la conseguente ulteriore polarizzazione dei redditi e con una fiducia davvero cieca nell’Europa in quanto tale, nel momento in cui proprio l’Europa sta cambiando profondamente pelle. Come era possibile pensare che reggesse i termini elettorali un ceto politico, impegnato unicamente a ricandidarsi, limitandosi a ergere Mario Draghi a sola icona politica e abbandonando ogni rappresentazione sociale e ogni capacità critica verso la Nato, verso l’Unione europea e verso un liberalismo moderato da anni Novanta? L’inesistente agenda Draghi, a mio parere, ha fatto perdere il senso della complessità della democrazia popolare.

La seconda considerazione guarda in prospettiva futura. La recente audizione di Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, presso la Commissione affari economici del Parlamento europeo è la dimostrazione che in Europa è in corso una pericolosa involuzione monetarista. In estrema sintesi la presidente della Bce ha dichiarato, in sequenza, che l’inflazione durerà a lungo e che l’economia europea sta per entrare in recessione. Di fronte a ciò -ha continuato Lagarde- la ricetta è molto chiara: aumenti dei tassi d’interesse, drastica riduzione degli acquisti di titoli del debito pubblico, contenimento salariale e scudo anti-spread applicabile solo con onerose condizionalità. Siamo tornati all’era Trichet, con la differenza non banale che ora l’inflazione può davvero fare male in termini sociali e aggravarla con soluzioni inefficaci e, al contempo, destinate a peggiorare le disuguaglianze sarebbe devastante. Per l’Italia, il messaggio è chiaro: basta debito per coprire la futura Legge di Stabilità. Si ha l’impressione, in tale ottica, che il governo Draghi fosse comunque finito vista l’impossibilità di fare una riforma fiscale e una certa diffidenza a mettere mano alle regole finanziarie.

La nuova stagione della sinistra dovrebbe partire da un europeismo critico, da un filologico appello all’articolo 53 della Costituzione, da una valorizzazione del risparmio diffuso e dalla restituzione di un carattere politico alle strategie monetarie, quantomeno per fronteggiare la politicissima Federal Reserve statunitense e per difendere il welfare. Nel frattempo l’esecutivo Meloni dovrà trovare le tante risorse che mancano  -una quarantina di miliardi- non facendo troppo affidamento al suo programma, dai chiari tratti prociclici: concepito cioè solo per un’economia che va bene, dalla flat tax incrementale allo stralcio fiscale fino alle tante, maggiori spese, non copribili solo con l’auspicio di una ripresa.

La terza considerazione individua il limite con cui il nuovo governo dovrà misurarsi. L’inflazione ci sta riportando velocemente indietro, con pericoli antichi e nuovi al tempo stesso. Il debito pubblico italiano è esploso a partire dagli anni Ottanta, quando è diventato insostenibile il peso degli interessi da pagare per collocarlo. In pochi anni si è passati da un rapporto debito-Pil del 50% a uno del 120%, sulla spinta del debito secondario. Tali interessi dovevano essere pagati dal Tesoro italiano per reggere la concorrenza di altri titoli di Stato, a cominciare da quelli americani che beneficiavano della copertura del dollaro come moneta di scambio e di riserva internazionale. Oggi sta riproponendosi una situazione in parte simile. I tassi di interesse delle banche centrali sono saliti e i rendimenti dei titoli di Stato dei vari Paesi sono cresciuti per far fronte al loro deprezzamento, in parte dettato dall’inflazione. I Bund tedeschi hanno perso in pochi mesi il 18% del loro valore, i Btp italiani il 20% e questo ha spinto i rendimenti al rialzo. In tale ottica lo spread non cresce perché sia Italia sia Germania sono costrette ad alzare i tassi e dunque non sarà lo spread a determinare il quadro di riferimento, anche in termini politici.

Pesa invece, come negli anni Ottanta, la concorrenza dei titoli di Stato americani che rendono, sul decennale, il 4,5% e dunque sono molto appetibili. Ancora una volta, come allora, il Tesoro degli Stati Uniti può permettersi una simile operazione grazie alla forza del dollaro che sta schiacciando l’euro a 0,96 e sempre più giù. In altre parole, la politica economica degli Stati Uniti viene costruita, come in passato, scommettendo sulla debolezza degli altri Paesi e sull’aspettativa che la Cina non abbia intenzione, almeno nel breve periodo, di sganciarsi dal dollaro. Solo se l’Europa avesse una vera credibilità internazionale questa pesante rendita di posizione si indebolirebbe, in caso contrario ci troveremo a fare i conti con un nuovo decollo del debito soltanto per gli interessi da pagare; e gli appelli alla nazione rischiano di ricordare i famigerati “prestiti del littorio”.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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