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Economia / Opinioni

Caro energia e crisi sociale: quattro proposte per provare a uscirne

Sganciare i prezzi dell’energia da quelli del gas, de-finanziarizzare il settore, rafforzare la presenza pubblica nel mercato e contrastare contro l’uso dei derivati finanziari. Iniziative più efficaci del “tetto” invocato da più parti, che ricorda il principio fallimentare di “Quota novanta”. L’analisi di Alessandro Volpi

© Patrick Federi, unsplash

Il caro energia sta creando una crisi sociale ed economica durissima. Tuttavia non vengono prese misure che sembrerebbero elementari. Ne indico quattro. La prima consisterebbe nello sganciare il prezzo dell’energia da quello del gas. Oggi esistono forme di produzione di energia (a cominciare dalle rinnovabili) che costano molto meno rispetto al gas ma, in base alle disposizioni europee, vengono vendute al prezzo del combustibile fossile che, essendo oggetto di speculazione, sale ogni giorno. Per una disposizione europea dunque paghiamo tutta l’energia a un prezzo altissimo anche se ne esistono altre forme che hanno costi bassi. Un’assurdità per cui esiste una soluzione facile: sganciare i prezzi dell’energia da quelli del gas.

La seconda. I prezzi del gas sono definiti alla borsa di Amsterdam che produce una colossale montagna di scommesse a fronte di un limitatissimo volume di scambi, per uno o due miliardi di euro al giorno a fronte di un volume di 2.000-3.000 miliardi della borsa petrolifera di Londra. Perché non si elimina questa distorsione? Perché non si de-finanziarizza l’energia, magari cominciando con lo scegliere un mercato di riferimento dei prezzi che tratti maggiori volumi? Non sarebbe difficile a fronte di una crisi che sta facendo chiudere attività, sta spingendo in povertà e sta gonfiando solo i profitti finanziari.

La terza. Il prezzo dell’energia è impazzito per effetto della speculazione. Le bollette sono ormai insostenibili e le forze politiche chiedono aiuti, che sono difficilmente quantificabili data la probabile crescita ulteriore dei prezzi. Si tratta in ogni caso di spesa pubblica, sottratta ad altri impieghi, e destinata a pagare il caro energia determinato dagli speculatori e dalle società che fanno extra-profitti. Una vera follia, come più volte ricordato. Ma rispetto a questo tema c’è un ulteriore problema.

Da più parti si sostiene, giustamente, di tassare gli extra-profitti energetici con una percentuale ben superiore al 25%. Il problema nasce però dal fatto che questi non sono facili da calcolare viste le normative sui bilanci delle società energetiche e data la mole di strumenti contabili creati nel tempo per rendere meno chiara la loro lettura. Non a caso le società energetiche hanno già fatto ricorso contro la tassazione e soprattutto hanno versato pochissimo, meno del 20% del valore dell’imposta stessa. Non trascurerei il fatto che le normative hanno consentito l’ingresso nelle società energetiche -strategiche per un Paese- dei grandi fondi speculativi, certo poco propensi a pagare imposte.

Servirebbe dunque una maggiore presenza pubblica nell’energia, con ipotesi di ri-nazionalizzazione motivata con ragioni non dissimili da quelle che avevano portato alla nascita di Enel, concepita per battere monopoli che oggi sono finanziari. In ogni caso occorre una radicale riforma della contabilità delle società energetiche per renderle finalmente trasparenti.

Infine, la quarta proposta. Si legge nel programma di alcune forze politiche l’idea di un “tetto” nazionale del prezzo del gas a 100 euro a megawattora. Mi permetto di dire, sommessamente, che non è realizzabile a meno che lo Stato non paghi la differenza con il prezzo reale, che significherebbe un esborso colossale ai valori attuali. Il prezzo del gas è infatti definito, purtroppo, su quello più alto e a quel livello viene venduto da tutti i venditori sia russi sia algerini sia mozambicani o di qualsiasi altra parte del Pianeta. Sostenere di pagare 100 euro quando il mercato ne vuole 250 è un’affermazione di principio simile a “Quota novanta” voluto da Benito Mussolini perché nessuno venderà all’Italia gas a 100 euro, così come nessuno voleva 90 lire per una sterlina.

Dunque, far pagare il gas agli italiani 100 euro significa, come detto, che lo Stato italiano versa ai fornitori l’enorme differenza rispetto al prezzo di mercato ma tale differenza dovrà provenire dall’aumento del carico fiscale, da nuovo debito o, magari, in parte dai già ricordati extra-profitti. Il tetto massimo, tanto più nazionale, non è una soluzione per un Paese che importa il 97% della propria energia: sarebbe necessario, e possibile, invece frenare i meccanismi che generano gli alti prezzi del gas, a cominciare dai già accennati limiti alla finanziarizzazione. Perché non introduciamo un regolamento, anche nazionale, che impedisce l’uso dei derivati finanziari in relazione a energia, beni agricoli, alimentari, commodities e materie prime? Perché non sosteniamo le battaglie in tal senso nelle sedi europee e in quelle internazionali?

Un’ultima considerazione. Gli scenari europei stanno rapidamente cambiando. In particolare sta modificandosi la posizione della Germania che sembra dover fare i conti con la crisi di due degli assi portanti delle sue strategie economiche. In primo luogo è travolta, più di gran parte dell’Europa, da una pesantissima inflazione che dipende in primis dal costo dell’energia importata. Si tratta di un dato molto anomalo per la Germania che, dal dopoguerra, ha sempre coltivato una moneta forte per scongiurare i pericoli della super svalutazione patita dalla Repubblica di Weimar. In altre parole, per i tedeschi la valuta forte è stata l’obiettivo prioritario, anche in termini simbolici, per allontanare i fantasmi del passato. Oggi, il fantasma dell’inflazione è tornato.

Il secondo asse portante entrato in crisi è la politica di buone relazioni energetiche con la Russia su cui i vari governi tedeschi hanno costruito le proprie dinamiche di sviluppo; l’energia russa a basso costo è stata una delle componenti decisive della spinta di cui ha goduto l’economia tedesca. Anche questo secondo asse è ora in crisi profonda e proprio la pressoché totale dipendenza dalla Russia, coltivata nel tempo, genera in Germania una crisi economica pesante. Peraltro, proprio l’idea di un gas a prezzi stracciati non ha mai fatto sollevare obiezioni, da parte della Bce “tedesca”, agli eccessi di finanziarizzazione che oggi sono la causa dell’inflazione e quindi delle difficoltà tedesche. Dunque, la Germania è in affanno e una simile condizione ha buona parte delle responsabilità nella debolezza dell’euro, ritenuta dai mercati una moneta “tedesca” appunto. Questa nuova situazione cambia però anche il quadro europeo nel suo insieme perché spinge la Germania a chiedere aiuto ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo per ricevere “solidarietà” in termini energetici. Il cancelliere Scholz propone di trasferire una parte dell’energia importata in direzione della Germania. Forse ci sono le condizioni per scrivere veramente nuove regole.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.

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