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Economia / Opinioni

Spread, rapporto debito-Pil e crescita dell’Eurozona, è ora di cambiare

© Mika Baumeister, unsplash

Per fotografare la salute dell’Europa occorrono nuovi parametri che tornino a guardare all’economia reale. La rubrica di Alessandro Volpi

Tratto da Altreconomia 252 — Ottobre 2022

Servono nuove categorie? In questi mesi stanno cambiando alcuni dei parametri con cui le istituzioni, economiche in primis, hanno provato, a lungo, a misurare la salute dell’Europa. Con l’avvento dell’inflazione, il rapporto tra debito e Prodotto interno lordo (Pil) ha sempre meno senso come indicatore. Se infatti si gonfia il Pil nominale per effetto dell’inflazione, paradossalmente migliora il suo rapporto con il debito anche se in termini reali il debito continua a lievitare. In altre parole, il debito pubblico italiano sta continuando a salire, ma il suo rapporto con il Pil migliora per effetto della crescita gonfiata dall’inflazione. Si tratta dunque di un parametro fortemente distorto.

Il secondo indicatore, di cui si è spesso abusato, è lo spread, in particolare in relazione ai titoli tedeschi: l’inflazione sta costringendo anche la Germania a pagare interessi più alti sul proprio debito decennale e, dunque, una simile lievitazione tende quantomeno a congelare lo spread con i titoli pubblici degli altri Paesi. La crisi tedesca infatti sembra avere caratteri strutturali che si manifestano in una pesante inflazione dipendente in primis dal costo dell’energia importata; un dato molto anomalo per la Germania che, dal dopoguerra, ha sempre coltivato una moneta forte per scongiurare i pericoli della supersvalutazione patita dalla Repubblica di Weimar. Per i tedeschi la valuta forte è stata l’obiettivo prioritario, anche in termini simbolici, per allontanare i fantasmi del passato.

Secondo le stime Eurostat il tasso di inflazione raggiunto in Europa ad agosto 2022 è del 9,1%

Oggi, il fantasma dell’inflazione è tornato e si lega al rapido deterioramento delle buone relazioni energetiche con la Russia su cui i vari governi tedeschi hanno costruito le proprie dinamiche di sviluppo; l’energia russa a basso costo è stata una delle componenti decisive della spinta di cui ha goduto l’economia tedesca. Peraltro, proprio l’idea di un gas a prezzi stracciati non ha mai fatto sollevare obiezioni, da parte della Banca centrale europea (Bce) “tedesca”, agli eccessi di finanziarizzazione che ora sono la causa dell’inflazione e quindi delle difficoltà tedesche. La Germania quindi è in affanno e questa condizione ha buona parte delle responsabilità nella debolezza dell’euro, ritenuta dai mercati una moneta “tedesca” appunto. Una simile situazione cambia però il quadro europeo nel suo insieme perché spinge la Germania a domandare aiuto ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo per ricevere “solidarietà” in termini energetici. Chi invoca lo spread come un dato in grado di misurare lo stato di salute delle economie dovrebbe tener conto che l’inflazione ha profondamente cambiato la condizione della Germania, divenuta non più in grado di generare profondi divari. Lo spread italiano non sale, ma questo significa davvero poco in termini reali.

Il terzo parametro, meno direttamente misurabile, è costituito dall’idea, a lungo seguita, che l’allargamento dell’Unione europea e dell’Eurozona siano condizioni di rafforzamento dell’euro; ormai non è affatto così. Come accennato, l’euro sta svalutandosi nei confronti del dollaro perché l’Europa, oltre ad avere una guerra ai propri confini, manifesta tutte le differenze profonde che la ricerca dell’allargamento costante ha generato. Forse è giunto il momento di abbandonare questi parametri e tentare di individuarne altri, soprattutto, nella definizione delle politiche europee e nelle strategie della Bce. Due ipotesi possibili sarebbero quelle di legarle al numero degli occupati e alla qualità dei contratti e delle retribuzioni dei lavoratori. Si tornerebbe a discutere, in tal modo, di economia reale.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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