Economia / Approfondimento
Un fisco a misura di ricchi che concentra la povertà nella maggioranza
La riforma fiscale promessa dal governo punta su un’aliquota unica per l’imposta sui redditi, una forte riduzione delle entrate correnti e un ritorno al concordato biennale per sanare i contenziosi. Interventi che peggiorerebbero una situazione che già oggi vede favoriti i ceti più abbienti a scapito di chi ha di meno. L’analisi di Remo Valsecchi
Una riforma generale del fisco, per l’importanza e gli effetti che produce sul sistema sociale ed economico, richiederebbe un approfondimento anche sul metodo adottato. È legittima la delega che attribuisce la funzione legislativa al governo, come accaduto quest’estate? L’articolo 76 della Costituzione ricorda che “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”. Una riforma del sistema non è affatto un oggetto definito, è semmai una questione di carattere generale che compete al Parlamento. Perciò, ritengo, non delegabile.
Veniamo ora al merito. L’aliquota unica per l’imposta sui redditi, obiettivo della delega, vìola a parere di chi scrive il principio della “capacità contributiva” e del criterio della “progressività”, stabilito dall’articolo 53 della Costituzione.
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”
Art. 53 della Costituzione
Il governo fa finta di volerlo rispettare con il meccanismo delle deduzioni e delle detrazioni. Ma se il meccanismo è quello del disegno di legge presentato dalla Lega nella precedente legislatura, quello cioè della flat tax, siamo molto lontani dall’equità fiscale. Equità non significa infatti che tutti devono pagare le imposte nella stessa misura proporzionale ma che ognuno è chiamato a concorrere alle spese dello Stato con un sacrificio della medesima intensità, che varia in funzione del reddito di cui si dispone. Vediamo i numeri.
La tabella dei ventili di reddito sopra riportata aiuta a comprendere la situazione. Se l’ultimo ventile, il 5% dei contribuenti, ha un reddito che è il 23,15% del totale e, calcolata la media pro-capite, dopo aver pagato 31.881 euro, gli resta una disponibilità di 67.875 euro, significa che sopporta il sacrificio con un’intensità inferiore, e non deve rinunciare ad alcun bene o servizio, essenziale e non. Mentre chi ha un reddito inferiore alla media nazionale di 22.163 euro, e residuale, dopo le imposte, di 17.925 euro, con ogni probabilità ha difficolta a soddisfare i bisogni primari della famiglia. In questa condizione, secondo i dati del dipartimento delle Finanze, troviamo i primi dodici ventili, cioè il 60% dei contribuenti. La priorità dovrebbe essere quindi quella di affrontare i loro problemi perché un miglioramento della qualità della vita di queste famiglie non è solo nel loro interesse ma di tutta la comunità, ossia il cuore dello Stato.
Se i consumi interni diminuiscono, come sta avvenendo in questi ultimi mesi perché la maggior parte della popolazione deve rinunciarvi per la perdita del potere di acquisto di salari e stipendi e per redditi troppo bassi, gli effetti negativi ricadranno sugli ultimi ventili.
I redditi indicati nella tabella, tutti, ma in misura maggiore per quelli elevati, non sono completi in quanto non comprendono le entrate soggette a imposte sostitutive e a cedolari secche, ossia che non formano il reddito complessivo del contribuente e che vengono tassati in misura fissa con aliquote inferiori a quella minima prevista negli scaglioni progressivi o leggermente superiore. Questo, in particolare per gli ultimi quattro ventili, significa già un notevole risparmio di imposta.
I redditi da canoni di locazione di fabbricati, ad esempio, che nei dati del dipartimento delle Finanze sono disponibili in quanto indicati nella dichiarazione dei redditi anche se tassati con cedolare secca del 21% o del 10%, ammontano a 18,08 miliardi di euro, di cui il 66,32% -cioè 11,99 miliardi di euro- è di competenza degli ultimi quattro ventili che beneficiano di un risparmio complessivo di 3,09 miliardi di euro. La delega prevede l’estensione della cedolare secca anche alle locazioni di unità immobiliari destinate ad attività commerciali sino a oggi escluse e, quindi, con un ulteriore beneficio per i possessori dei redditi più elevati. Anche le entrate di natura finanziaria -utili d’impresa e dividendi distribuiti dalle società, plusvalenze di Borsa e interessi attivi percepiti- sui quali viene effettuata una ritenuta a titolo d’imposta dall’ente erogante nella misura del 26%, con esonero dalla loro inclusione nella dichiarazione dei redditi e, quindi, con esclusione di ulteriori conguagli.
Di questi redditi non c’è traccia nei dati del dipartimento delle Finanze. Può venirci in aiuto il Bilancio consuntivo dello Stato che nell’anno 2022 ha registrato entrate a titolo di imposte sostitutive per 29,125 miliardi di euro. Ipotizzando un’aliquota sostitutiva media del 26%, anche se forse è inferiore, i redditi relativi ammonterebbero a 112 miliardi di euro -se l’aliquota media fosse inferiore al 26% l’ammontare dei redditi aumenterebbe-, non dichiarati, che si aggiungono a quelli indicati nella tabella. Se dichiarati avrebbero consentito un maggior gettito gettito da 15 ai 20 miliardi di euro ulteriori che, al contrario, sono diventati un risparmio per i possessori di redditi elevati. L’elenco delle agevolazioni è lungo ed è una delle ragioni che complicano l’adempimento fiscale (e meriterebbe un dossier).
L’opposizione in Parlamento, che è stata maggioranza sino a qualche mese fa, ha le sue responsabilità perché se siamo in questa situazione di privilegi che hanno contribuito a impoverire il Paese, in larga parte è dovuta alle politiche precedenti. Adesso questa propone “soluzioni” che, però, si è ben guardata dall’attuare quando ne aveva le possibilità. L’unica logica che la caratterizza è la contrapposizione politica, non la soluzione dei problemi, e cade anche in proposte di natura ideologica come quella della patrimoniale. Sono convinto infatti che non serva a nulla tassare la proprietà, specialmente se il patrimonio si è costituito attraverso comportamenti fiscali corretti: è meglio recuperare le imposte sui redditi che, non mi stanco di ripetere, sono l’unico riferimento per determinare la capacità contributiva includendo, però, quelli che legittimamente non vengono dichiarati per la compiacenza della politica e che porterebbero decine di miliardi di euro di entrate per lo Stato.
Con l’attuale delega al governo si pone un altro problema che ha una lunga storia e che ha portato l’Italia a un indebitamento fuori logica (un bel regalo da lasciare alle future generazioni).
Una riforma delle entrate correnti, quasi tutte fiscali, dovrebbe essere accompagnata da una razionalizzazione delle spese ma non sul versante dei servizi, che sono la funzione che giustifica l’esistenza stessa dello Stato. Negli ultimi tre anni le entrate di parte corrente non hanno consentito la copertura delle spese di parte corrente realizzando un indebitamento troppo elevato e non giustificato. Possiamo fare un’eccezione, con parecchi dubbi, per il 2020 e per parte del 2021, a causa della pandemia da Covid-19, ma non per il 2022 e nemmeno per i prossimi tre anni, come invece è previsto dal bilancio di previsione pluriennale.
La flat tax, l’imposta unica, nell’articolo 45 della proposta di legge presentata nel settembre 2022, per la prima fase, non per la sua applicazione a regime, prevede una minore entrata per lo Stato di 38 miliardi di euro. Come faremo a garantire l’equilibrio di un bilancio che già presenta un saldo negativo? Semplice: aumenteremo ulteriormente il debito pubblico. Ma il debito è uno strumento utile se destinato a finanziare gli investimenti perché consente di distribuire nel tempo il loro costo, ed è dannoso se destinato alla copertura del disavanzo della gestione corrente, compresi gli interessi passivi, o per rimborsare le scadenze annuali dei debiti precedenti. Come sta avvenendo in Italia. Se le imposte dirette, quelle che rientrano nella dichiarazione annuale dei redditi, vengono ridotte, rappresentando il 37% del totale delle entrate tributarie, si apre una voragine nell’equilibrio di bilancio che può essere affrontato in due modi. O con la riduzione dei servizi oppure con la loro esternalizzazione, cioè la privatizzazione, con conseguenze ad esempio sulla sanità, dove per ricevere cure adeguate occorre attendere mesi o anni salvo che si disponga di risorse economiche sufficienti per l’assistenza privata.
Non è vero che quest’ultima sia migliore, è solo una forma di classismo sociale inaccettabile in un sistema che ha fatto del Servizio sanitario nazionale un baluardo diventato ormai solo teorico. Oltretutto coloro che possono ricorrere, pagando, alla sanità privata sono gli ultimi ventili, cioè il 15% della popolazione. E gli altri? Una nota di colore si rende necessaria: le spese sanitarie sono, giustamente, deducibili dal reddito e, quindi, a chi può permettersi il lusso dell’assistenza sanitaria privata, di solito con redditi superiori a 50mila euro e con aliquota terminale del 43%, ne viene indirettamente rimborsata quasi la metà. E l’equità dove sta?
La riduzione delle imposte dirette si è riflessa, inoltre, sui servizi pubblici essenziali (energia, acqua, rifiuti, carburanti, autostrade) la cui gestione è stata privatizzata, magari solo sostanzialmente, per aumentare il gettito attraverso le imposte sui redditi prodotti dalle società di gestione e dai dividendi, e sopperire così alla riduzione dell’imposizione diretta. Questo fatto si manifesta, in particolare, negli enti locali che hanno sostituito la riduzione dei trasferimenti dallo Stato con gli aumenti delle tariffe dei servizi. In entrambi i casi, la riduzione delle imposte è diventata e diverrà sempre più un costo per quel 60% della popolazione, ovvero i primi 12 ventili, che non ne hanno beneficiato e non beneficeranno ma dovranno farsi carico dell’onere conseguente.
L’altro riflesso negativo della diminuzione delle entrate a seguito del beneficio concesso ai redditi più alti sarà sulle imposte indirette, Iva e accise, che rappresentano un altro 37% delle entrate tributarie, e sono chiamate “imposte sugli affari” quando in realtà si stratta di imposte sui consumi, cioè pagate all’atto di acquisto di beni e servizi. Due imposte che sono la negazione della questione sociale e che alcune teorie economiche ritengono espressione della capacità contributiva in quanto il consumo in qualche modo è rapportato al reddito. Teoria inaccettabile che potrebbe esserlo solo se facesse distinzione tra consumi di lusso e non. Ma così non è.
Come si giustifica un’Iva del 10% su un alloggio turistico in una modesta pensione con prezzi bassi e sacrifici elevati per l’utilizzatore e la stessa aliquota su alberghi e case vacanza dal costo di alcune migliaia di euro per notte? Come si giustifica un’Iva del 22% sull’acquisto di un’utilitaria, magari effettuato a rate con interessi che gravano anche sull’imposta, e lo stesso 22% per un’autovettura che costa centinaia di migliaia di euro? Tempo fa, prima dell’avvento delle logiche liberiste, che sono in realtà illiberali, sulle auto di cilindrata superiore a 200 cavalli l’Iva era del 30% proprio per marcare la differenza tra il lusso e la necessità. Perché non sostituire le vergognose accise che gravano su beni e servizi essenziali, energia e carburanti, con un’imposta sul lusso che, per coloro che possono beneficiarne, non è un sacrificio ma potrebbe contribuire a migliorare la qualità della vita di tutta la comunità? Perché la politica ha scelto un modello dove vengono create le differenze sociali che, alla fine, impoveriscono tutto il Paese? Non si vuole in questo senso “eliminare la ricchezza” e nemmeno “non riconoscere economicamente il merito”, si vuole solo cancellare la povertà assoluta e relativa. Cosa da ritenersi impossibile da parte di un governo che invece di correggere gli evidenti errori del Reddito di cittadinanza lo ha cancellato.
L’altro aspetto che solleva perplessità nella delega è la questione del contrasto all’evasione e della riforma del contenzioso con ricorso al concordato biennale, uno strumento già presente nel nostro ordinamento sino al 1972 e abbandonato anche perché causa di corruzione e malaffare. In quegli anni le dichiarazioni presentate erano letteralmente inventate e lontano dal vero perché il funzionario partiva dal reddito dichiarato per quantificare l’importo concordato. Vogliamo ritornare a quelle modalità?
Il sistema fiscale è sicuramente complesso e articolato principalmente per due ragioni: per via delle imposte sostitutive per agevolare i redditi più alti e per un contrasto all’evasione e all’elusione che nel nostro Paese sono troppo elevate e che vengono, comunque, utilizzate, comprendendo le attività illegali, lo spaccio ed il lavoro irregolare, per determinare il famigerato Prodotto interno lordo (Pil). Se il figlio di un politico di spicco intesta il proprio telefono personale allo studio del papà, come hanno ricostruito i giornali quest’estate, consentendo una detrazione non legittima dal reddito dello studio legale, si tratta di elusione e non di evasione, ma sempre scorretta è. E l’esempio non è dei più edificanti. Ecco perché penso che la flat tax applicata quasi solo nei Paesi dell’ex Unione Sovietica sia esattamente il contrario dell’equa distribuzione del reddito, concentrando la ricchezza in poche persone e la povertà nella maggioranza del Paese. Del resto le teorie del neobolscevismo di Aleksandr Dugin hanno fatto proseliti anche in Italia.
Remo Valsecchi, già commercialista, ha scritto per Altreconomia il dossier “Carissimo gas”
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