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Economia / Opinioni

Che cosa dice la mozione di Elly Schlein su fisco, Irpef e patrimoniale

© Luigi Mistrulli - Fotogramma

La mozione con cui Schlein ha vinto le primarie del Partito democratico contiene un paragrafo dedicato alla progressività fiscale dove sono condensati numerosi elementi di una possibile riforma. Alessandro Volpi li ha analizzati. E ha formulato alcune ulteriori proposte concrete per contrastare le disuguaglianze

La mozione con cui Elly Schlein ha vinto le primarie del Partito democratico contiene un paragrafo dedicato alla progressività fiscale dove sono condensati molteplici elementi di una possibile riforma. Forse, quel tipo di paragrafo avrebbe dovuto essere collocato tra le parti di apertura della trentina di pagine della mozione perché Schlein dedica un grande risalto alla necessità di dar vita a un modello di Stato sociale universalistico che è certamente molto costoso e che la stessa mozione dichiara di non voler coprire con nuovo debito.

Al netto della “riqualificazione” della spesa pubblica e dell’abbattimento delle inefficienze, resta quindi il cruciale nodo fiscale rispetto al quale Schlein mostra di avere alcune idee ferme: no alle flat tax, necessità di garantire una reale progressività, “debalcanizzando l’Irpef” e volontà di far pagare le stesse aliquote a parità di reddito. C’è poi, chiara, l’esigenza di spostare il carico delle imposte dal lavoro alle rendite e alle emissioni climalteranti. Altrettanto manifesta appare l’intenzione di introdurre un’imposta patrimoniale e di mettere mano all’imposta di successione. Infine, non mancano i riferimenti alla semplificazione, alla lotta all’evasione e alla fiscalità come strumento per agire nel mercato del lavoro e nell’indirizzare il sistema produttivo.

Dunque, c’è quasi tutto e risulta tangibile l’orientamento verso il contrasto alle disuguaglianze, a cui, ancora secondo Schlein, deve mirare la funzione redistributiva del fisco. Questi principi hanno però bisogno di essere declinati nello specifico e, in particolare, di essere quantificati nelle dimensioni del gettito previsto, perché è lì, ancor più che nei principi generali, che è possibile leggere il vero impatto politico e sociale di una riforma radicale della fiscalità. Fino a quando, infatti, circa la metà delle entrate dello Stato e la pressoché totalità delle entrate tributarie deriveranno solo da Irpef e Iva sarà molto difficile mantenere la spesa pubblica senza un costante ricorso al debito.

Provo a indicare alcuni punti in direzione di una simile, necessaria, revisione delle entrate partendo dai punti della mozione. Restituire progressività al sistema fiscale significa ripensare in profondità le cedolari secche che stanno togliendo gettito importate ai tributi italiani e che sono decisamente regressive. “Debalcanizzare l’Irpef” significa mettere mano al sistema delle deduzioni e delle detrazioni, compresi gli 81 bonus vigenti, eliminandone una gran parte per aumentare poi il numero delle aliquote e rendere la pressione fiscale più coerente con il reddito e rimuovere iniqui “scaloni”. Ma la riforma dell’Irpef deve essere accompagnata anche da una ristrutturazione della base imponibile complessiva rispetto alla quale non è possibile che l’Ires contribuisca soltanto per 35 miliardi di euro scarsi e nella cui definizione troppe norme favoriscono la riduzione della pressione sui capitali, nello specifico quelli di natura finanziaria.

Non sarebbe inopportuna, in tal senso, una qualificazione delle molteplici rendite da capitale, distinguendole in base alla loro capacità di generare lavoro dignitoso, senza concepire giganteschi sconti, come sta avvenendo, in base alla rapidità dei versamenti. Contrastare la flat tax dovrebbe imporre, inoltre, una immediata revisione dell’incredibile limite degli 85mila euro di fatturato indicati per l’aliquota al 15%.

Più in generale è indispensabile una riflessione, da collegare agli aspetti centrali delle normative europee e internazionali, sulla necessità di superare il paradigma novecentesco per cui il fisco colpiva i beni materiali per approdare a una dimensione in cui a dare un maggior contributo in termini fiscali sono i servizi immateriali prodotti da società che oggi realizzano utili stellari di fatto esenti da tasse.

Infine, il tema dell’imposta patrimoniale deve essere ben esplicitato perché la quantità del suo gettito è il vero nodo. Non ha senso, infatti, immaginare una sorta di contributo solidaristico una tantum per dare più consistenza alle entrate straordinarie dello Stato. Un’imposta sui patrimoni deve avere come fine quello di contrastare l’enorme polarizzazione della ricchezza che si è realizzata nel nostro Paese anche in conseguenza del progressivo abbattimento del carico su profitti e immobili. In tale ottica deve diventare una voce stabile del riformato sistema fiscale, distinta dall’Irpef e dalle imposte locali, il cui gettito, peraltro, rischia di assottigliarsi ancora più rapidamente nei prossimi anni.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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