Diritti / Attualità
Un cittadino di Gaza fa causa al governo italiano per la sua “complicità” con Israele
Salahaldin M. A. Abdalaty, avvocato gazawi, ha perso sei familiari a fine 2023 uccisi dalle bombe israeliane sulla Striscia. Grazie a un pool di legali del foro di Torino ha fatto depositare al Tribunale di Roma a inizio aprile un ricorso urgente per far condannare il nostro Paese per il supporto militare, economico e politico a Tel Aviv
L’Italia si è resa “complice” di Israele nella strage di civili in corso a Gaza dal 7 ottobre 2023 ed è corresponsabile dei gravissimi danni sofferti dalla popolazione della Striscia. Per queste ragioni va portata in Tribunale per aver violato il diritto interno e internazionale, condannata e costretta a fermarsi, interrompendo, tra le altre cose, la vendita di armi e ristabilendo i propri finanziamenti all’Agenzia dell’Onu per i rifugiati della Palestina (Unrwa). È quanto chiede un ricorso urgente in via cautelare in materia di violazione dei diritti umani depositato a inizio aprile 2024 dinanzi al Tribunale civile di Roma da parte di un gruppo di quattro avvocati del foro di Torino -Stefano Bertone, Marco Bona, Gianluca Vitale ed Emanuele D’Amico- che ha preso le parti di un cittadino gazawi al quale l’esercito israeliano ha portato via, uccidendoli il 7 dicembre 2023 nella Striscia di Gaza, sei membri della sua famiglia: la madre, il fratello, il nipote, la cognata, la madre del fratello e la sorella.
Il nome del “ricorrente” è Salahaldin M. A. Abdalaty: nato a Jabalya, nella Striscia, e di professione avvocato, è stato costretto insieme ai suoi figli a rifugiarsi in Egitto per scampare alle bombe, alle aggressioni armate, alla carestia e alla mancanza dei mezzi minimi di sussistenza conseguenti alle operazioni militari israeliane. “Anche in quanto avvocato -si legge nel ricorso- crede fermamente nella necessità di assumere ogni iniziativa giuridica possibile per proteggere i suoi congiunti ed i suoi diritti fondamentali e, quindi, di fare tutto il possibile per arginare i pregiudizi propri, della sua famiglia e della sua comunità”.
Nelle 33 pagine del documento predisposto dagli avvocati torinesi viene ripercorsa la “tragedia” del ricorrente -che è iscritto al Palestinian bar association (cioè l’Ordine degli avvocati palestinesi- e dei suoi familiari. Questi sono stati uccisi da un bombardamento israeliano nella notte del 7 dicembre 2023, dopo esser stati costretti ad abbandonare la propria casa per cercare un luogo “sicuro” più a Sud. Scorrendo le pagine c’è la mappa dei loro spostamenti infernali: da Jabalya, a Nord, verso il campo profughi di Nuseirat, al centro della Striscia, e poi Deir al Balah, Khan Younis, e poi su, di nuovo, verso il campo di Al-Bureij. I sei sono stati seppelliti il giorno dopo l’attacco mentre Abdalaty è riuscito a lasciare la Palestina attraverso il valico di Rafah, mettendo in salvo i feriti. Altri familiari sono rimasti nella Striscia, così come la stragrande maggioranza della popolazione civile che è ancora ad altissimo rischio. Al 5 aprile i morti ufficiali sono ormai 33mila. “Se dovessi provare a tornare nei luoghi ove si trovavano la mia proprietà immobiliare e la mia abitazione -ha spiegato ai propri avvocati- confermo di espormi ad un rischio di vita altissimo se non a sicura morte”.
Gli autori del ricorso passano poi a definire il ruolo dell’Italia nelle violazioni “inferte al ricorrente, ai suoi familiari ed alla popolazione civile palestinese”. E lo fanno elencando, per brevità, undici condotte che il nostro Paese avrebbe assunto dopo il 7 ottobre 2023. Non ha fermato la vendita di armi -come hanno dimostrato le inchieste di Altreconomia-, non ha fermato la stipula di nuovi contratti della difesa per la fornitura di macchinari/strumenti destinati all’esercito israeliano, non ha vietato l’uso dello spazio aereo nazionale per la “spedizione di materiale bellico verso le basi militari israeliane e per l’esecuzione di missioni di ricognizione militare dalla base di Sigonella”, non ha mosso un dito quando il più volte richiamato “diritto di Israele di difendersi” ha assunto le caratteristiche di un plausibile genocidio, per citare la Corte internazionale di giustizia, ha “omesso di svincolarsi dalle posizioni assunte da Israele” quando la Repubblica del Sudafrica si è mossa contro Tel Aviv proprio dinanzi alla Corte dell’Aja, non ha fornito appoggio al Sudafrica, come invece ha fatto la Repubblica d’Irlanda, non ha partecipato al processo relativo all’illegalità dell’occupazione israeliana in Palestina attivato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 gennaio 2023, non ha nemmeno votato a favore delle diverse risoluzioni presentate all’Assemblea Generale dell’Onu per il cessate il fuoco, ha tagliato i fondi all’Unrwa e si è rifiutata di ristabilirli, a differenza di quanto fatto da Svezia, Finlandia, Canada, Francia e Commissione europea, autorizzando la stipula da parte di Eni di un “contratto per ottenere licenza per esplorazione ed acquisizione di gas naturale nelle aree marittime della Striscia di Gaza appartenenti alla Palestina”.
“I sopra descritti comportamenti dell’Italia -riprendono gli avvocati- che non esauriscono le condotte ritenute illecite dal ricorrente – non sono cessati neppure quando la Corte Internazionale di Giustizia nel contenzioso su citato azionato dal Sudafrica ha riscontrato la plausibilità delle accuse di genocidio rivolte dai ricorrenti ad Israele, ordinando a quest’ultima di astenersi dal compiere atti che lo integrino”.
Il nesso di causalità tra le condotte italiane e i crimini israeliani sarebbe perciò “lampante”. E non c’è solo l’astrattezza della dottrina -per la quale la “complicità è uno dei mezzi più comuni di partecipazione in un atto illecito a livello internazionale”- ma anche la dura concretezza di chi ne ha patito le conseguenze. Nel ricorso, infatti, si cita la Dichiarazione urgente dei direttori generali delle agenzie umanitarie e delle organizzazioni per i diritti umani su Rafah, Gaza, del 18 febbraio 2024. “Il silenzio, e a volte il sostegno materiale all’esercito israeliano da parte di nazioni potenti, è un segnale di complicità preoccupante nell’aggravarsi della crisi di Gaza. Attraverso il trasferimento di armi, l’ostruzione diplomatica delle risoluzioni o il silenzio, queste azioni hanno di fatto garantito l’impunità a Israele. […]. Gli Stati hanno la responsabilità legale e morale di proteggere i civili, prevenire i crimini di guerra e sostenere il diritto internazionale. Esortiamo tutti gli Stati a considerare che la loro inazione o il loro continuo sostegno non solo aggrava la tragedia, ma li coinvolge anche. Li invitiamo a fare tutto ciò che è in loro potere per prevenire ulteriori offensive militari e forgiare un cessate il fuoco permanente e completo a Gaza”.
I riferimenti normativi e convenzionali citati nel ricorso sono chiarissimi: la Costituzione italiana e il suo articolo 11, la legge 185 del 1990 sul “controllo dello Stato” nel trasferimento di armi, la Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio e il suo Preambolo, il Trattato sulle Armi delle Nazioni Unite del 2014, la Posizione comune europea che ha definito nel 2008 norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologie e attrezzature militari. Così come solido è il precedente della Corte d’appello dell’Aja del febbraio di quest’anno, che ha ritenuto che l’Olanda avesse il dovere di sospendere con effetto immediato le consegne delle parti di ricambio dei caccia F35 a Israele.
Verso la fine del ricorso c’è una foto satellitare di Beit Lahyia, dove abitava Salahaldin M. A. Abdalaty, prima e dopo il 7 ottobre. La prima immagine mostra dall’alto dei tetti, terra battuta e del verde, la seconda invece è uno spiazzo grigio di polvere, macerie e distruzione. Ora la palla passa al Tribunale di Roma, al quale è richiesto di intervenire con rapidità e “inaudita altera parte”, senza cioè ascoltare la presidenza del Consiglio dei ministri e i ministeri degli Esteri e della Difesa. “Il valore della causa è indeterminabile”, concludono gli avvocati. E il tempo è già finito.
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