Diritti / Reportage
Tra i solidali che aiutano i migranti in Serbia, ancora respinti
Non si ferma il confinamento di migliaia di persone -specie afghani, siriani e pakistani- e l’allontanamento da e verso il Paese balcanico. Un gruppo di volontari italiani si è recato sulla frontiera con l’Ungheria per descrivere il supporto di singoli e Ong: “I governi parlano di profughi ucraini ma qui ci si vergogna di essere europei”
Da quasi due anni dedichiamo giornate di lavoro volontario per preparare, inscatolare e caricare su tir vestiti e cibo da inviare ad associazioni che supportano le persone in transito lungo la rotta balcanica. Lo facciamo con il comitato Iscos Veneto presso il magazzino di Zanè (Vicenza). Ogni 40 giorni circa partono uno o due camion diretti a Bihać, in Bosnia ed Erzegovina. A fine maggio di quest’anno ci siamo recati direttamente nei Balcani per un “viaggio solidale”.
A coordinarlo è Tamara, giovane ragazza bosniaca che conosce molto bene territori e associazioni in Bosnia ed Erzegovina e Serbia, con un vissuto nella storia delle guerre iugoslave. È originaria di un piccolo paese vicino a Srebrenica e suo nonno è stato ammazzato nella strage di migliaia di bosniaci da parte delle milizie serbe di Ratko Mladić. Nonostante fosse giovanissima, nel 1995, ricorda molto bene quei fatti. Ora vive a Reggio Emilia.
La prima tappa è Šid, in Serbia, poco dopo la frontiera con la Croazia. C’è uno scalo ferroviario e per questo è un punto scelto da molti migranti che via terra cercano di entrare nella “fortezza Europa”. Arriviamo nel tardo pomeriggio. Il primo incontro è con i volontari dell’organizzazione No Name Kitchen (Nnk), attiva su questa rotta così come a Ceuta, in Spagna. Sono otto ragazzi giovanissimi (tedeschi, americani, francesi e inglesi). Qui a Šid aiutano le persone in movimento che vivono in insediamenti precari (squat) e nella boscaglia, in attesa di provare il game. Fanno pacchi alimentari, distribuiscono e lavano i vestiti e glieli restituiscono, utilizzano docce artigianali che si possono usare all’aperto. Il numero di migranti cambia a seconda dei mesi.
A Šid non esiste più un unico grande punto di ritrovo come negli anni passati. Nel dicembre 2019, infatti, la polizia e le squadracce “cetniche” hanno dato fuoco alle tende dei migranti in una ex fabbrica e fatto espellere dalla Serbia i volontari di Nnk.
Dopo le elezioni di poco più di un mese fa, la polizia non fa più controlli ferrei ma potrebbe intervenire da un momento all’altro. Ogni due-tre settimane arrivano i beni da Bihać, lo scalo delle nostre spedizioni da Zanè. Il loro magazzino è ordinato e tra i pacchi troviamo diversi di quelli che abbiamo preparato. È un piacere vedere che quanto facciamo in Italia arrivi effettivamente alle persone.
I ragazzi migranti a Šid sono prevalentemente afghani, pakistani e siriani, e ci sono anche minori non accompagnati. Due di noi, con Tamara e Regina di Iscos, si recano con i volontari di Nnk a portare viveri nella boscaglia, verso il confine. I migranti in transito si accampano in tende nel bosco sopra il lago di Šid, a poche centinaia di metri dalla frontiera. A orari fissi sul calar della sera si incontrano in un punto per la distribuzione di cibo, coperte, assistenza sanitaria di base. L’incontro diventa anche un momento di sostegno e condivisione.
No Name Kitchen ha messo a punto un sistema tramite canali informativi e verbali per la raccolta dei bisogni in modo da organizzare una distribuzione equa e calibrata sulla richiesta reale (dall’abbigliamento ad altri beni) e utilizzare così al meglio i materiali stoccati. Il territorio è angusto, a fine maggio piove: si cammina a fatica tra fango, sterpaglie e sentieri non tracciati. Anche i ragazzi di Nnk hanno qualche difficoltà a orientarsi. Il primo pensiero è che ci sarebbe bisogno di pile frontali da inserire in futuro tra i pacchi da portare perché alla sola luce dei cellulari anche un tragitto di mezzora sembra un percorso impervio e incerto.
A fine maggio i migranti in transito a Šid sono pochi. Il brutto tempo ha distrutto i bivacchi e li troviamo tutti impegnati nella raccolta di legna per risistemarli. Rientriamo a sera inoltrata.
La mattina dopo ci trasferiamo da Šid a Subotica, al confine con l’Ungheria, passando per il Parco nazionale della Fruška Gora. Arriviamo nel pomeriggio per incontrare Erica, tra le coordinatrici di Collective Aid (Ca), organizzazione che dal 2017 supporta i migranti sulla rotta balcanica (dalla Bosnia ed Erzegovina alla Serbia, fino in Francia).
Andremo con loro a distribuire gli aiuti ai migranti sul confine con l’Ungheria e in due squat, tra cui una stalla. Qui i numeri sono molto più alti che a Šid. Si parla ogni giorno di decine di migranti sul confine (almeno 200) e di 60 persone negli squat. Erica riferisce di aiuti settimanali a circa 800 persone, soprattutto siriani, marocchini, tunisini, afghani. Anche qui prevalgono maschi molto giovani ma ogni tanto si nota qualche famiglia. Come Nnk, anche Collective Aid ha un approccio rispettoso delle persone, nel senso che non chiedono le loro storie ma aspettano che siano loro a raccontare, se ne hanno voglia.
Sono in stretto contatto con il Border Violence Monitoring Network per raccogliere le testimonianze di eventuali violenze e realizzare quei report mensili che dal 2019 hanno inchiodato la violenza istituzionale degli Stati (Croazia, Slovenia, Ungheria, Romania ma anche Italia) contro i migranti. I volontari di Collective Aid hanno dai 24 ai 30 anni. Vengono da Messico, Stati Uniti, Francia, Italia e Inghilterra. Stanno qui da tre a sei mesi: dipende anche da quando vanno in “burnout” dato che si tratta di un lavoro molto faticoso anche sotto l’aspetto psicologico.
Il loro intervento è strutturato e programmato. Distribuiscono pasti, vestiti, ricariche dei cellulari, materiale per farsi la barba, offrono un servizio di lavanderia e di assistenza.
Erica racconta dei due campi profughi ufficiali a Subotica e Sombor (Reception-transit center, Rtc), gestiti direttamente dal governo serbo. Chi è nel campo vuole uscirne per tentare il game, anche perché lì dentro aumentano le denunce di violenze. Sono in contatto con una giovane associazione serba per la protezione dei richiedenti asilo composta da legali. Ci parla, molto provata, dell’ultimo episodio di violenza subito da una donna siriana che in fase di parto è stata picchiata dalla polizia serba. Per fortuna sono riusciti a salvare lei e il bambino. E racconta del grande risultato di avere una sede nuova a Subotica con un magazzino ordinato. La collaborazione con altre associazioni è stretta e costante. Ci diamo appuntamento al giorno dopo, prestissimo, per distribuire pacchi e aiuti sulla frontiera ungherese dove il governo del fascista Viktor Orbán costruisce muri e fa picchiare i migranti, respingendoli.
L’indomani incontriamo Henry di Collective Aid e Adalberto di No Name Kitchen. Adalberto lo abbiamo già conosciuto due anni fa a Šid quando per il suo lavoro a supporto delle persone in transito era stato espulso dalla Serbia. Henry “presenta” l’operato di Collective Aid: ha iniziato a operare in tre squat nel 2020 e ora sono attivi in otto punti di raccolta dei migranti.
In Serbia i flussi stanno di nuovo crescendo: si tratta di cittadini afghani, siriani, dal Maghreb o dal Medio Oriente. I campi profughi in Serbia sono campi di transito, ricordano gli attivisti. Nelle strutture hanno cibo e da dormire ma sono sempre pieni per cui aumentano quelli fuori a cui manca tutto. Nell’ultimo mese ne hanno monitorati 2.200 e sono solo una piccola parte di quelli che stanno negli squat.
Ciò che emerge dai racconti dei volontari delle tre organizzazioni è la buona collaborazione e sinergia che hanno saputo costruire tra loro e con le poche realtà territoriali, in modo da coprire i diversi bisogni e offrire alle persone in transito servizi ma anche accoglienza e relazione. Non è un elemento secondario a fronte di persone che arrivano spogliate di tutto. L’organizzazione è “in progress” ma ci tengono a sottolineare il tentativo di dare partendo dai bisogni reali. Hanno messo a punto schede in più lingue e disegni in modo che le persone possano richiedere ciò che gli serve scegliendo tra cibo e igiene. L’obiettivo è di dare qualcosa a tutti.
Andiamo al magazzino di Collective Aid per le operazioni di carico di beni e attrezzi per andare sul confine per la “distro” (cioè la distribuzione) di cibo e docce. Raggiungiamo quindi Horgoš, alla frontiera con l’Ungheria e vicinissima alla Romania. Durante il tragitto ci fermiamo a raccogliere l’acqua potabile e quella per le docce e per i serbatoi. Ci accompagnano tre volontari di Collective Aid: Adele, dalla Francia, Francesco, di Bergamo, e Mary, dagli Stati Uniti.
Appena arriviamo in aperta campagna, vicino al confine, cominciano ad arrivare i migranti, il cui numero aumenta sensibilmente fino a superare 150 nel giro di poco. Le attività dei volontari sono in sostanza tre: distribuzione di cibo e prodotti igienici, servizio di docce da campo con tende montate e assistenza. Quello che vediamo è impressionante. Decine di migranti, la stragrande maggioranza ragazzi, arrivano per ritirare il pacco. Non facciamo a tempo a riempire i sacchetti che ne arrivano altri. Sono tantissimi.
Hanno fame, sono distrutti e con evidenti segni di malattie della pelle (scabbia); pur essendo moltissimi, rispettano la coda e gli altri per prendere un povero pacco fatto di patate, vegetali, riso e uova, oltre a due prodotti di igiene, spazzolini, lamette da barba, salviettine e saponette.
Ne arrivano sempre di più con scarpe e vestiti logori, gli occhi tristi, molti con bende e ferite. Se li saluti o scherzi con loro ti sorridono, qualcuno parla l’italiano, chissà quante volte hanno tentato il game e magari sono riusciti ad arrivare anche in Italia, per poi essere espulsi.
Molti hanno ferite ai piedi che da banali diventano gravi a causa delle pessime condizioni igieniche e degli sforzi cui sono sottoposti. C’è grande difficoltà ad acquistare farmaci e materiale anestetico in quanto non possono essere prescritti a soggetti bollati come “irregolari”. Per alcune malattie come la scabbia si è a corto dell’antibiotico specifico per cui occorre somministrare un antistaminico, almeno per evitare il prurito. Descrivono il confine con l’Ungheria: 250 chilometri di doppio filo spinato con sopra lame che tagliano e martoriano i corpi.
Le persone devono pagare i passeur che propongono tariffe differenti a seconda del “servizio”. Quello massimo, che qui chiamano “deluxe”, costa anche più di 5mila euro e comporta l’essere portati al confine, scavalcare con una scala doppia (da una parte e dall’altra) per poi essere prelevati da un’auto al di là.
I migranti intanto continuano ad arrivare dal punto di ritrovo nei paraggi di una stalla: sono tantissimi, qualcuno si è fermato sotto la tenda che abbiamo montato. È un’esperienza che segna. Vedere queste ingiustizie in Europa mentre i governi parlano solo di profughi ucraini fa vergognare di essere europei.
Questo racconto è a cura delle volontarie e dei volontari del Circolo Arci Spazio Condiviso di Calolziocorte (Lecco), parte della rete RiVolti ai Balcani. Le fotografie sono di Chiara Fabbro.
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