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Diritti / Attualità

Sotto attacco in Serbia gli attivisti che aiutano i migranti lungo la rotta balcanica

Il primo febbraio a Šid -città situata sul confine Nord-occidentale con la Croazia- tre volontari dell’associazione No Name Kitchen impegnati nell’accoglienza delle persone in transito sono stati raggiunti da fogli di via che intimano di lasciare il Paese entro sette giorni dopo un processo farsa. Aggrediti da operai e poliziotti che esponevano simboli della destra ultranazionalista sono stati fatti passare per gli aggressori

Le fiamme nei pressi della fabbrica abbandonata nell’ex area industriale di Grasforem

I testimoni delle violazioni dei diritti dei migranti sui punti di passaggio della rotta balcanica devono sparire. Sabato primo febbraio a Šid -la città serba situata sul confine Nord-occidentale con la Croazia- tre attivisti impegnati nell’accoglienza delle persone in transito sono stati raggiunti da fogli di via che intimano di lasciare la Serbia entro sette giorni, e che prescrivono l’obbligo di non rientrarvi per i prossimi sei mesi. Si tratta di due donne e un uomo provenienti da Germania e Italia, volontari dell’associazione No Name Kitchen (NNK), che ogni giorno nella città serba raggiungono i migranti accampati nei pressi dell’ex area industriale di Grasforem portando loro cibo, acqua, tè caldo e vestiti. Lo scorso 22 novembre la polizia aveva sgomberato dall’area 200 migranti, quasi tutti di nazionalità afghana, che avevano trovato rifugio all’interno della fabbrica dismessa.

Tra i volontari colpiti dalla misura c’è Adalberto, attivista partito da Bologna, incontrato durante il viaggio di Corrado Conti e Monica Panza dello scorso dicembre. Contattato al telefono ci ha spiegato quanto accaduto all’inizio di febbraio: “Siamo arrivati alla Grasforem verso le 7.30 di sabato mattina, come facciamo due volte al giorno, e abbiamo iniziato a svegliare le persone che dormivano nelle tende vicine all’edificio. Li abbiamo esortati a togliere le tende e gli effetti personali da dove si trovavano, perché dal 18 gennaio alcuni operai si stavano presentando ogni sabato mattina a tagliare la boscaglia che circonda la fabbrica, quella nella quale i migranti posizionano le tende dopo lo sgombero di novembre. Lo abbiamo fatto per evitare che gli operai rubassero, bruciassero o distruggessero i loro oggetti. Purtroppo i migranti presenti non sono stati abbastanza veloci, e quando gli operai sono arrivati alle 9 del mattino, c’era ancora una tenda tra i cespugli molto vicina all’edificio”.

Racconta infatti l’attivista che sabato 18 gli operai si erano presentati solo per disboscare, mentre il successivo sabato, il 25 gennaio, alcuni di loro avevano dato fuoco a tende e oggetti che avevano rinvenuto nei paraggi della fabbrica. Il 25 –aggiunge– erano accompagnati dalla polizia e uno di loro portava appesa al furgone una bandiera Cetnica, quella della destra ultranazionalista e anticomunista serba che si richiama all’esercito di Pietro II, il re jugoslavo esiliato durante la Seconda Guerra mondiale: “Già quel giorno uno degli operai aveva aggredito una delle attiviste presenti e aveva tagliato una gomma del furgone di No Name Kitchen. Il giorno dopo i volontari si sono recati alla stazione di polizia a denunciare quanto accaduto”.

Tornando all’episodio di sabato 1 febbraio, spiega Adalberto, “mentre un’attivista si trovava dentro la tenda per sistemare le cose contenute al suo interno, uno degli operai si è avvicinato e ha buttato benzina su un telo di plastica che si trovava fuori dalla tenda, così come anche sulla tenda mentre la donna era ancora all’interno. L’operaio ha poi dato fuoco al telo di plastica, che ha preso fuoco ed è stato un puro caso che anche la tenda con la ragazza all’interno non sia bruciata. Quando un’altra volontaria ha cercato di documentare la scena con il suo telefono, un secondo operaio le ha gettato addosso un petardo, che le è esploso sulla schiena. Il primo operaio inoltre, in divisa nera e armato di manganello, ha distrutto il cellulare dell’attivista, che era caduto a terra, a bastonate. Intanto uno degli operai ha appeso la bandiera serba e quella Cetnica alle pareti dell’edificio”.

Continua Adalberto: “A quel punto abbiamo deciso di allontanarci il più in fretta possibile, posizionandoci nel parcheggio di fronte alla fabbrica. Qui è sopraggiunto il vice-sindaco di Šid, Zoran Semenovic, che ha raggiunto il gruppo di operai e ha iniziato a conversare con loro, intimando a noi di allontanarci dal parcheggio e spostarci sulla strada. Infine è arrivata la polizia -chiamata da altri tre attivisti di No Name Kitchen anch’essi sopraggiunti sul posto– che tuttavia ha obbligato tutti noi sei volontari di NNK a salire sul furgone, per portarci alla stazione di polizia. A questo punto io e le due volontarie presenti fin dall’inizio siamo stati trattenuti nella stazione di polizia dalle 10 alle 16, momento in cui siamo stati informati che presto sarebbe iniziato un processo, anche se non abbiamo avuto la possibilità di rilasciare nessuna dichiarazione ufficiale né di contattare un avvocato. Gli operai sono stati invece autorizzati a rilasciare una dichiarazione. Il processo si è quindi svolto in tre parti. Ognuno di noi tre è stato accoppiato con un lavoratore. A questo punto abbiamo scoperto che ognuno di noi era accusato di aver aggredito la sua controparte. Durante i confronti, ai volontari non è stata data la possibilità di raccontare la storia dal loro punto di vista. Gli è stato semplicemente chiesto di dimostrare che non avessero attaccato gli operai”.

Dice Adalberto: “Io, che ero in coppia con il capo degli operai -quello con il manganello e la divisa nera- ho cercato di spiegare che era stato proprio l’operaio ad iniziare l’aggressione. Il giudice tuttavia ha invalidato la mia dichiarazione, sostenendo che la forza fisica dell’uomo era tale che se fosse stato lui ad aggredirmi io non mi sarei potuto rialzare in piedi e sarei stato in pessime condizioni. Sono quindi stato giudicato colpevole di aver violato l’ordine pubblico, e ho dovuto scegliere tra venti giorni di carcere o una multa di 20mila dinari serbi, che corrispondono a circa 200 euro. Lo stesso vale per la volontaria che era stata aggredita con il petardo dal secondo operaio. La ragazza che si trovava nella tenda invece, e che ha rischiato di prendere fuoco per la benzina cosparsa dall’uomo in divisa, non è stata giudicata colpevole, in quanto è stata messa in coppia con un operaio che non era stato affatto coinvolto nell’aggressione. Quest’ultimo ha infatti ammesso che lei non l’aveva aggredito e che la dichiarazione non era accurata. Sospettiamo quindi che le dichiarazioni non siano state preparate da loro”.

In conclusione “dopo il processo, gli altri volontari sono venuti a pagare le multe per il rilascio, ma noi tre siamo stati trattenuti alla stazione di polizia per un’altra ora e mezza e alla fine siamo stati autorizzati ad andarcene solo all’una di notte. A tutti e tre, anche alla ragazza che non è stata giudicata colpevole di nulla, è stato consegnato un documento che ci chiede di lasciare la Serbia entro una settimana e di non tornare per un periodo di sei mesi”. I tre volontari segnalano di essersi messi in contatto con le ambasciate italiana e tedesca per provare a impugnare i provvedimenti, anche se, a detta di un avvocato del Belgrad Centre for Human Rights, questo tipo di provvedimento sembrerebbe non poter essere sospeso. “Siamo ancora nella nostra sede di Šid –conclude Adalberto– continuando a fare il nostro lavoro come sempre”. Per martedì 4 febbraio è previsto un suo incontro all’ambasciata italiana a Belgrado, per capire se potrà evitare quella che a tutti gli effetti sembra un’espulsione per ragioni politiche.

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