Diritti / Opinioni
Torniamo a Genova, 21 anni dopo, perché abbiamo un discorso aperto con il futuro
Chi ricorda il summit del luglio 2001 e il modello fallimentare del G8 non è reduce ma testimone di un passato recente che gli otto “non-grandi” vorrebbero rimuovere. “Ma c’è una storia che continua e non si è fermata”, scrive Lorenzo Guadagnucci
No, non siamo reduci. Torniamo a Genova, 21 anni dopo, perché abbiamo un discorso aperto con la storia e con il nostro futuro. Il futuro di tutti. Abbiamo intorno macerie. Il G8 ha fallito. A Genova, nel luglio del 2001 si riunivano i cosiddetti “otto grandi” -grandi per il Pil delle rispettive economie, non per le idee e tanto meno per le prospettive- e pensavano di esibire al mondo le proprie certezze, la propria promessa di un Pianeta avviato verso il progresso e la libertà attraverso il dominio del profitto, della finanza, della crescita infinita dei consumi. Guardiamoci attorno. Siamo soffocati, assetati, assediati da temperature insopportabili, drammatiche carenze d’acqua, ghiacciai che si staccano dalle montagne: tutti eventi legati a un collasso climatico e ambientale che pare inarrestabile. Da due anni viviamo nell’ansia della pandemia da Coronavirus: impauriti, reclusi, decimati da un agente patogeno figlio legittimo e diretto di una folle prevaricazione sugli esseri viventi non umani.
Siamo anche sull’orlo di un vulcano che minaccia prima l’Europa e poi il resto del mondo: la guerra in Ucraina è il fallimento del G8, degli otto non-grandi che hanno finto di guidare il mercato e ne sono stati schiacciati, producendo guerre su guerre, fino a questo fasullo scontro di civiltà, che sta portando l’umanità sempre più vicino al conflitto nucleare. Fra gli otto che si riunirono a Genova nel luglio 2001 c’era anche Vladimir Putin, all’epoca compagno di avventure dell’Occidente democratico e globalizzatore. Non facciamoci ingannare: il Putin di oggi -nemico numero uno, oligarca bellicista mosso da intenti vetero imperialisti- è figlio di quel G8, di quell’arroganza, di quella mancanza di visione che ha pensato agli affari e ha prodotto guerre, nazionalismi e il fallimento dello stesso progetto europeo, minato al suo interno dal tarlo neoliberista, un’ideologia alla lunga incompatibile con la democrazia e la cooperazione fra i popoli e gli Stati, unica garanzia -quest’ultima- di un clima di pace e quindi di un contesto adatto all’affermazione di nuove idee e nuovi orizzonti, dei quali abbiamo urgente bisogno per ricostruire una società capace di futuro sulle macerie di un sistema fallito.
Torniamo a Genova perché non abbiamo dimenticato nulla. Non le nostre molte buone ragioni, che ci avevano spinto a contestare radicalmente -prove alla mano, cioè fatti e concrete esperienze osservate e praticate in ogni angolo del Pianeta- un modello di sviluppo senza futuro, estrattore ingordo e spietato di risorse scarse, dominato dalla finanza, produttore di disuguaglianze insopportabili e votato a un’ideologia della crescita incompatibile con i limiti ecologici della Terra. Eravamo tanti, venivamo da tutto il mondo e formavamo un movimento che non nascondeva le proprie ambizioni: cambiare senso all’ordine delle cose; accantonare il neoliberismo e il mito della crescita infinita; mettere al centro le persone e il resto dei viventi; riprendere il filo di un discorso antico attorno al tema dell’uguaglianza fra le persone; costruire un sistema equo e civile di cooperazione fra Stati. E molto altro. Tutto documentato, spesso sottoposto alla prova dei fatti, con la sperimentazione di molti nuovi modi di vivere, produrre e consumare (nel senso di consumare meno e meglio, e secondo criteri di giustizia).
Non dimentichiamo nemmeno com’è andata a finire: in un bagno di sangue e di illegalità. Illegalità di Stato. Il 20 luglio ricordiamo Carlo Giuliani, ucciso e poi vilipeso, e lo facciamo perché la sua memoria dev’essere una puntura di spillo quotidiana nel corpo delle istituzioni, un tormento incessante che deve ricordare il fallimento politico, morale, istituzionale di allora. Un movimento globale, portatore di nuove idee, composito nelle sue culture come altri mai, è stato affrontato con la forza e con l’abuso di polizia, anziché col dialogo e gli strumenti offerti dalla democrazia, tanto esibita nella retorica quanto umiliata nella pratica.
Sappiamo da tempo che avevamo ragione, che il 2001 è stato l’anno delle occasioni perdute, l’inizio della fine del neoliberismo come promessa di benessere globale, ma non è questo il punto. Il punto è che oggi abbiamo un disperato bisogno di cambiare rotta, di uscire dall’incubo della guerra infinita e del disastro climatico inarrestabile. È necessaria, urgente, vitale una “conversione ecologica” di un modello di sviluppo arrivato al capolinea. Sappiamo che tutto dovrà nascere dal basso, da pensieri, esperienze e progetti oggi relegati ai margini di un dibattito pubblico mai così asfittico e autoreferenziale. Dovrà nascere un movimento globale forte, ambizioso, persuasivo e sappiamo che già esistono nel mondo straordinarie esperienze in atto: non è vero che non è possibile cambiare tutto. Un movimento globale forte e pieno di idee vent’anni fa esisteva e quindi può esistere di nuovo. Torniamo a Genova perché non siamo reduci, ma testimoni di un passato recente che gli otto non-grandi vorrebbero cancellare dalla storia: ma c’è una storia che continua e non si è fermata a Genova. Non è una speranza, semmai un impegno.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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