Economia / Opinioni
Sul Btp Valore. A quali condizioni è una buona idea nazionalizzare il debito pubblico
Nei primi due giorni di collocamento del nuovo Buono del tesoro poliennale sono stati venduti titoli per nove miliardi di euro. Un segnale positivo. Per evitare destabilizzazioni dei prezzi occorrono però regole chiare che tengano lontani da titoli così fondamentali i pescecani della finanza. L’analisi di Alessandro Volpi
Il tema della “nazionalizzazione” del debito pubblico è una questione da trattare con cura. La Banca centrale europea di Christine Lagarde sembra testardamente intenzionata a continuare ad aumentare i tassi di interesse e, in maniera altrettanto testarda, a interrompere gli acquisti dei titoli pubblici in scadenza, lasciando molte incertezze sull’enorme programma anti-Covid-19 e sull’ipotesi persino di vendere i titoli pubblici in suo possesso.
Un vero e proprio disastro in atto, soprattutto per i Paesi maggiormente indebitati. Una parziale soluzione al problema può essere rappresentata dal coinvolgimento dei piccoli risparmiatori nell’acquisto del debito pubblico del loro Paese. L’Italia ha ripreso questa strada da qualche anno e ora lo sta facendo con i Btp Italia e con il fresco Btp Valore, riservati appunto ai risparmiatori cosiddetti retail.
Si tratta di una soluzione intelligente perché riduce la dipendenza del nostro Tesoro dall’estero e può sostituire in parte gli acquisti della Bce, almeno per i programmi “ordinari” in scadenza, non certo per l’eventuale mancato riacquisto del debito anti-Covid-19.
Attualmente la quota del debito pubblico italiano in mano dei piccoli risparmiatori nazionali si attesta al 9%, dunque a una percentuale molto bassa, ma tramite questi strumenti potrebbe salire con una discreta rapidità. Nel primo giorno di collocamento del Btp Valore (5 giugno 2023) sono stati venduti titoli per 5,4 miliardi di euro (3,5 nella seconda giornata) ed è dunque probabile che entro il termine di scadenza di venerdì si possano superare ampiamente i 20 miliardi, che hanno rappresentato il record precedente, fissato nel 2014. Una tale soluzione consente, inoltre, di fornire ai piccoli risparmiatori una difesa contro l’inflazione, grazie a una indicizzazione reale in grado di contrastare l’erosione del risparmio prodotta dalla stessa inflazione.
C’è poi un ulteriore elemento positivo: l’indicizzazione dei rendimenti dei titoli all’inflazione implica ovviamente un maggior esborso per le casse dello Stato che è stimato, nel 2025, in circa 100 miliardi di euro, dovuti in primis al rialzo dei tassi della Bce. Se una parte rilevante di tali interessi sarà pagata dallo Stato a risparmiatori italiani, tali risorse favoriranno la crescita del Pil e quindi renderanno più sostenibile lo stesso indebitamento pubblico; una condizione che non si verificherebbe se gli interessi fossero pagati a compratori esteri.
Perché la “nazionalizzazione” almeno parziale del debito sia realmente benefica occorrerebbero però alcune condizioni che dipendono poco dal singolo Paese. La prima è costituita dalla necessità di limitare con regole finalmente chiare il presunto “mercato” delle scommesse sui titoli del debito pubblico, rendendo in maniera ultimativa e senza deroghe impossibile l’acquisto di tali assicurazioni a coloro che non hanno il titolo pubblico da assicurare.
In altre parole deve essere chiarissimo che non si può scommettere contro il debito di un Paese senza avere i titoli di quel debito. In realtà sarebbero necessarie regole ancora più stringenti per eliminare queste stesse assicurazioni, anche in presenza di titolo sottostante, perché si sono rivelate nelle ultime crisi sovrane una miccia pericolosissima. Bisognerebbe, al contempo, escludere alcune tipologie di soggetti finanziari dalla possibilità di acquistare i titoli sia alle aste sia al mercato secondario e soprattutto di poter operare nel mercato delle assicurazioni sui titoli di Stato.
In particolare questo vincolo dovrebbe valere per i grandi fondi hedge, in grado per la loro potenza di fuoco di determinare il destino del debito dei Paesi, e quindi della loro economia, innescando vere e proprie ondate speculative, spesso assai distanti dalle condizioni reali dell’economia. Trasferire il debito di un Paese nelle mani dei suoi cittadini può essere dunque una strada da seguire ma, ancora una volta, occorre una vera regolamentazione che tenga lontani da titoli così fondamentali i pescecani, capaci di destabilizzare qualsiasi prezzo. Se ciò non avviene, la nazionalizzazione del debito rischia di rovinare i risparmiatori due volte, perché brucia i loro risparmi e distrugge lo Stato che li dovrebbe sostenere nei momenti di crisi.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
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