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Economia / Opinioni

Le risorse del “decreto lavoro”, l’inflazione e un pericoloso gioco delle tre carte

© Romina BM - Unsplash

Promosso dal Governo Meloni come “il più grande taglio delle tasse degli ultimi decenni”, l’intervento sul cuneo fiscale sfrutta in realtà un Pil gonfiato dall’inflazione e dalla sospensione dei vincoli europei. Una misura temporanea destinata perciò a erodersi. E che si accompagna a nuova precarietà. L’analisi di Alessandro Volpi

In che cosa consiste, realmente, quello che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito il più grande taglio di tasse degli ultimi decenni? Per rispondere a questa domanda è sufficiente ricorrere ad una spiegazione rapida. L’inflazione ha gonfiato il Prodotto interno lordo nominale del nostro Paese, che ha così migliorato il suo rapporto con il debito e la sospensione del Patto di stabilità, ancora vigente fino alla conclusione del 2023. Ciò ha consentito all’Italia di “liberare” circa quattro miliardi di euro, partoriti dunque dall’inflazione. In altre parole, l’obiettivo che il governo si era dato di riduzione del deficit è stato raggiunto con maggiore facilità grazie all’inflazione e così è venuto fuori un “bonus” della durata di cinque mesi per i redditi fino a 35mila euro. In pratica, una “una tantum” generata da inflazione e sospensione delle regole europee, ben poco determinata invece dalla crescita reale, come del resto dimostrano i numeri dell’occupazione.  

Solo per citare un dato: a gennaio 2023 sono stati firmati 660mila contratti di lavoro ma di questi solo 162mila sono a tempo indeterminato, il resto sono a termine, in apprendistato e in somministrazione. In sostanza è lavoro povero. Peraltro, parallelamente al “bonus” fiscale, nel decreto licenziato il primo maggio è previsto un taglio dei beneficiari e degli importi del reddito di cittadinanza per circa 3,5 miliardi di euro; in pratica una cifra analoga a quella destinata all’annunciato taglio del cuneo. In estrema sintesi, il “decretone” in termini di disponibilità “liberate” sposta ai redditi bassi, a cui indirizza una ottantina di euro, le risorse del reddito di cittadinanza, i cui percettori subiranno invece un taglio, pro capite, decisamente sensibile. 

Il rischio vero è che, così facendo, non si migliorino le condizioni dei lavoratori e si peggiorino quelle delle fasce più fragili. Nel frattempo, lo stesso testo ha “celebrato” il primo maggio moltiplicando le forme dei contratti precari e a tempo determinato, quelli che stanno caratterizzando cioè la nuova occupazione.

Questa manovra sconta poi due ulteriori criticità. La prima ha a che fare con la proposta di cambiamento del Patto di stabilità. Nel caso italiano ridurre dello 0,5% l’anno il rapporto deficit/Pil per portarlo al 3% comporterebbe -come abbiamo già scritto su Altreconomia– una spesa anno di 16 miliardi per un rientro quadriennale o di 8,5 per un rientro settennale. Si tratterebbe di due aggravi quasi insostenibili per un Paese che fatica a trovare, ora, senza ricorrere ad un debito troppo costoso, una ventina di miliardi per immaginare una legge di Bilancio. Con queste regole, soprattutto, verrebbero subito meno i margini di manovra che hanno consentito di “liberare” i 3,5 miliardi con cui, nel decreto lavoro, il governo finanza il taglio del cuneo fiscale che, appunto, vale solo per cinque mesi vista l’assenza di coperture.  

La seconda criticità è più generale. Mentre eroga il bonus, l’attuale esecutivo ha scritto nel Documento di economia e finanza che da ora al 2026 è possibile una crescita cumulata del Pil nominale del 16,6%, un dato raggiungibile solo incorporando un’alta inflazione, visto che la stima della crescita senza inflazione, nello stesso periodo, è del 4,9%. Solo con un’inflazione simile, infatti, sarà possibile una “apparente” riduzione del debito pubblico rispetto al Pil che libererebbe coperture per fare una sia pur limitata spesa pubblica e per non incorrere nell’infrazione europea. Il paradosso è evidente: si punta sulla peggiore delle tasse, l’inflazione, perché riduce a tutti, nello stesso modo, il potere d’acquisto, per poter avere una disponibilità di risorse, certamente inferiore alla crescita dell’inflazione, per fronteggiare gli effetti della perdita del potere d’acquisto. Il taglio, così, è già eroso. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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