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Diritti / Opinioni

Si vis pacem para pacem

© Jordan Mcdonald, unsplash

Le armi e la corsa ad armarsi impediscono di costruire canali alternativi per risolvere i conflitti. Le guerre si prevengono costruendo attivamente la pace quando non cadono le bombe. Occorre cambiare direzione sugli armamenti, rafforzando il ruolo dell’Onu. Il commento di Francesco Gesualdi

Abbiamo la cattiva abitudine di occuparci di guerra quando cadono le bombe, invece dovremmo occuparcene quando i cannoni tacciono perché le guerre vanno prevenute e si prevengono costruendo attivamente la pace. Le guerre non avvengono mai per caso. Anche se hanno bisogno di qualche folle che le dichiara, le guerre divampano quando trovano un terreno fertile caratterizzato da tre elementi fondamentali. Il primo di carattere culturale: un forte spirito nazionalista che vede gli altri popoli come potenziali avversari da cui guardarsi, meglio ancora da sottomettere. È la cultura della superiorità, del disprezzo, dell’egoismo, che giustifica qualsiasi mezzo pur di permettere alla propria nazione di affermare la propria egemonia. Il secondo elemento: un ordine economico iniquo che, oltre a generare privilegiati e depredati, genera risentimento ed odio che sposandosi con sentimenti di tipo nazionalista sfociano nella lotta armata che assume il volto del terrorismo. Il terzo elemento: un ordine politico debole, sprovvisto di luoghi efficaci per la risoluzione pacifica delle controversie. Una situazione, quest’ultima, che si accompagna sempre ad una forte presenza militare. E non si sa se ci si armi perché mancano i luoghi di risoluzione pacifica delle controversie o se manchino i luoghi di risoluzione pacifica come conseguenza del fatto che si è fatto la scelta opposta di voler risolvere i conflitti con le armi.

Alla fine della Seconda Guerra mondiale, proprio per evitare il ripetersi di conflitti mondiali, vennero istituite le Nazioni Unite con lo scopo dichiarato di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, di sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni, di cooperare nella risoluzione dei problemi internazionali e nella promozione del rispetto per i diritti umani. Ma contemporaneamente vennero create due alleanze militari. Da una parte la Nato formata da Usa, Canada e una decina di altre nazioni europee a impronta capitalista. Dall’altra il Patto di Varsavia comprendente l’Unione Sovietica e una manciata di altri Paesi europei a conduzione socialista. Il che rivela che al di là di tutto, l’idea che più convinceva era quella del motto “si vis pacem para bellum” se vuoi la pace prepara la guerra. Sul finire degli anni Ottanta del Novecento, il sistema socialista ha cominciato a disgregarsi e il Patto di Varsavia si dissolse. Il che indusse molti a ritenere che anche la Nato avrebbe conosciuto una fase discendente pensando che non aveva più ragione d’esistere. Ma invece di ridimensionarsi si rafforzò perché molti Paesi ex-comunisti chiesero di farne parte. E oggi la Nato è un’alleanza militare formata da 30 Paesi, che complessivamente spendono in armamenti una cifra superiore ai mille miliardi di dollari, oltre la metà della spesa mondiale, che nel 2021 è stata pari a 1.981 miliardi. In testa gli Stati Uniti che da soli hanno speso 778 miliardi (il 39% della spesa mondiale). La Cina, seconda in classifica, spende 252 miliardi, mentre la Russia si attesta a 62 miliardi dietro l’India che ha speso 73 miliardi. E un confronto in termini di spesa pro-capite dà 2.364 dollari per gli Stati Uniti e 430 per la Russia.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è un fatto inammissibile. Ma se vogliamo evitare il ripetersi di episodi analoghi e instaurare una pace duratura a invasione risolta, dobbiamo capire cosa è successo. Una richiesta forte della Russia è la neutralità dell’Ucraina, ossia la sua non adesione alla Nato. Una richiesta che, benché accompagnata con una scelta di prepotenza, ha molto il sapore della paura. La Russia si rende conto della superiorità della Nato e ne ha paura. Così tanta paura da volere una zona cuscinetto ai propri confini. E se non la ottiene con le buone (ossia con la diplomazia) cerca di ottenerlo con le cattive (ossia con le armi) confermando che non c’è niente di più pericoloso di un gigante impaurito che si sente braccato. Vogliamo parlarne di questa paura o vogliamo insistere con l’atteggiamento di chi, in nome dell’orgoglio, non vuole cedere al nemico nemmeno un millimetro?

Sappiamo che la paura è stata teorizzata come via della pace. È la vecchia legge animale che cerca di dissuadere il contendente dall’aggredire mostrando i muscoli. Ma quando ci si arma, il rischio che poi le armi parlino è sempre presente non solo perché ci strutturano mentalmente verso un atteggiamento bellicoso, ma anche perché ci impediscono di costruire canali alternativi per risolvere i conflitti in maniera diversa da quella armata. A che pro investire nei canali della diplomazia se siamo convinti che la pace si garantisce con la deterrenza armata? Ma oggi sappiamo che l’arsenale bellico comprende armi nucleari che se usate non porteranno a vincitori e vinti, ma alla morte di tutti. Ragione di più per prendere sul serio l’articolo 11 della Costituzione che dopo aver affermato il ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” impegna l’Italia a costruire “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Diciamo di avere la Costituzione più bella del mondo ed è vero. Ma dobbiamo avere comportamenti consequenziali che la mettono in pratica. Che tradotto significa avere il coraggio di rimettere in discussione la via della scelta armata. Discussione ancora più urgente oggi che la stessa Unione europea sembra orientata a costruire una difesa comune su questa prospettiva.

È arrivato il tempo di invertire il senso di marcia, cominciando tutti a fare dei passi indietro sulla strada degli armamenti costruendo invece luoghi efficaci di risoluzione pacifica delle controversie. Risultato che si ottiene rafforzando non solo il ruolo delle Nazioni Unite, ma creando anche in Europa un consiglio di sicurezza continentale che comprenda tutti, non solo quelli che fanno parte dell’Unione Europea. Perché il dialogo che più serve non è fra chi ha già trovato un terreno di intesa, ma con i più distanti che vivono il rapporto con gli altri con l’ambivalenza dell’egemonia e della paura.

Francesco Gesualdi (1949), allievo di don Lorenzo Milani a Barbiana, nel 1985 ha fondato a Vecchiano (PI) il Centro nuovo modello di sviluppo (cnms.it), da cui vengono lanciate le prime campagne di sensibilizzazione e informazione per un consumo critico in Italia. Per Altreconomia edizioni ha scritto tra gli altri “L’altra via” (2009) e “Cambiare il sistema” (2014)

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