Diritti / Reportage
In Bosnia, l’Europa “fortezza” negli occhi dei migranti respinti lungo la rotta balcanica
Reportage dalle montagne sopra Bihać, uno dei valichi dove migliaia di persone tentano di attraversare la frontiera e raggiungere la Croazia. Privi di assistenza legale, anche nei campi ufficiali finanziati dall’Ue, consapevole dei maltrattamenti e delle violenze. I respingimenti interessano anche minorenni, rendendo la situazione di assenza di diritto ancora più grave
Il giorno dopo lo sgombero del campo dei migranti a Vučjak, avvenuto il 10 dicembre 2019, delle tende di chi vi aveva trovato riparo rimane un cumulo di stoffa bianca. Sotto di esse si trovano molti oggetti personali abbandonati, mentre ruspe e operatori rimuovono tutto. Il campo, gestito dalla Croce Rossa e voluto dall’amministrazione locale come punto di prima accoglienza dei migranti che intraprendono la rotta balcanica (quella che, partendo dalla Turchia, attraversa Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia, Croazia e Slovenia fino agli stati dell’Europa occidentale), si trova a pochi chilometri dalla città di Bihać, in Bosnia Erzegovina, e ad ancora meno dal confine con la Croazia: quello che i migranti vorrebbero attraversare per entrare in Europa. Almeno in settecento abitavano al suo interno, e molti sono stati trasferiti il giorno prima in strutture a Sarajevo e Mostar. La demolizione avviene perché le condizioni di vita nell’accampamento sono state ritenute insostenibili, sebbene fin dall’apertura l’estate scorsa l’area sia stata privata dei servizi fondamentali: impossibile oggi, secondo le autorità, continuare a vivere al suo interno.
I dati delle Nazioni Unite evidenziano che gli arrivi di migranti nel Paese sono stati di 24mila persone nel 2018 e di 24.629 nel 2019, a fronte di soli 672 richiedenti asilo in Bosnia, e di nessuna protezione riconosciuta nei due anni. Per la protezione sussidiaria, quella dei profughi di guerra, i riconoscimenti sono stati di poche unità nell’arco del biennio. Nessuno fa domanda in Bosnia, tanti vorrebbero raggiungere i paesi dell’Europa occidentale, ma fra i problemi c’è anche il tema dell’assenza di tutela legale: “La prima ragione è che le richieste vengono rigettate – spiega Gianfranco Schiavone dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) – e il tasso di domande accettate è irragionevolmente basso, funzionando così in maniera dissuasiva, e non offrendo nessuna possibilità di collocazione. C’è poi un problema di accesso alla procedura: il sistema è studiato in modo che a nessuno passi per la testa di essere un rifugiato in Bosnia. Inoltre nei campi ufficiali, a chi volesse fare domanda di asilo viene detto che non è possibile, pur essendo questi finanziati dall’Unione europea e dall’Onu e con la presenza di organismi internazionali”.
Afghanistan, Iraq, Siria, Pakistan, Algeria, Egitto e Marocco: questi i paesi da cui proviene la maggior parte dei migranti. L’obiettivo di molti è raggiungere Germania, Francia, Italia e Spagna. È il caso di M’zia Jafari, trentenne afghano: da due mesi abita in una fabbrica abbandonata a Bihać, prima ha trascorso sei mesi ad Atene e quattro nel campo gestito da Unhcr a Moria, sull’isola di Lesvos, in Grecia. Dice che il giorno dopo il nostro incontro tenterà di nuovo l’attraversamento – “the game”, come lo chiamano tutti i migranti in transito – e racconta di essersi cimentato già quattro volte: “Ad ogni tentativo la polizia croata mi ha respinto, derubandomi i vestiti e il cellulare. Mi hanno anche sottratto i soldi con cui viaggiavo. Perché siamo sottoposti a trattamenti così disumani?”.
M’zia Jafari non vive in uno dei cinque campi ufficiali aperti nel corso degli ultimi due anni: in molti casi non c’è posto e anche quando c’è, le condizioni di vita sono difficili. Nel fabbricato semidistrutto in cui ha trovato riparo, insieme a due compagni di viaggio accende il fuoco con pezzi di plastica e un po’ di legna. I fumi rendono l’aria irrespirabile, ma non se ne curano: ciò che conta è potersi scaldare, mentre le temperature diventano sempre più rigide.
A pochi metri dalla fabbrica in cui abita Jafari, si trova il campo di Bira, gestito dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni dell’Onu, ricavato anch’esso da una fabbrica. Qui si vive in sei per ogni prefabbricato, in ognuno lo spazio basta per tre letti a castello. Solo i maschi possono accedervi, divisi fra adulti e minori non accompagnati. Dentro il campo è un operatore dell’Oim a darci alcuni numeri sulla struttura: dopo lo sgombero di Vučjak, il campo si trova a ospitare poco più di duemila persone, anche se la capacità sarebbe di circa millecinquecento. Molti infatti sono costretti ad abitare nelle tende da campeggio montate alla bisogna nella fabbrica. A chi risiede nel campo non sfuggono i paradossi della permanenza forzata in Bosnia. Sabih, pakistano di ventotto anni, afferma: “Da un lato l’Unione europea permette ai giornalisti di denunciare quanto avviene per mano della polizia croata ai danni dei migranti, dall’altro è proprio l’Unione europea a finanziare la Croazia per non consentirne il passaggio. I governi europei sono gli unici responsabili di quanto sta accadendo”. Sarebbe la Croazia a doversi fare carico delle domande di asilo dei 50mila che cercano di entrare, in quanto membro dell’Ue. E tuttavia non lo fa, il numero rimane risibile in tutto il paese.
“Alla responsabilità profonda della Croazia -prosegue Schiavone di Asgi- si aggiunge quella dell’Unione europea. La Croazia non potrebbe prendere tutte le domande, non ha organizzazione né struttura. L’origine del problema è nell’accordo con la Turchia per trattenere lì le persone. L’Ue sa benissimo che la situazione in Bosnia e in Croazia dà luogo a maltrattamenti e violenze di ogni genere, con i soldi europei. Lo fa perché non ha nessun altra soluzione che non sia quella di provare a bloccare gli arrivi”. Inoltre, i respingimenti si stanno verificando anche nei confronti dei minorenni, rendendo la situazione di assenza di diritto ancora più grave: “Il tema è l’impossibilità delle persone di tutelarsi perché non c’è nessun atto da impugnare per opporsi. Come se fossimo in Libia, o in Niger o nel Ciad. L’illegalità e la violenza sono tali che un pezzo di Europa è diventato un luogo terzo, dove sembra che l’Europa non ci sia”, conclude Schiavone, per il quale anche l’operato delle organizzazioni è ridotto al lumicino, a un mero agire burocratico incapace di innescare un cambiamento.
Bisogna percorrere il sentiero che da Vučjak porta al confine per capire cosa significhi tentare “the game”. In una piazzola per escursionisti si trovano cumuli di oggetti abbandonati, ma ciò che colpisce di più sono le lattine che contenevano bevande energetiche. Sembrano pile consumate e poi gettate, come se fossero servite davvero a dare energia e non solo un effetto placebo: ci si aggrappa a tutto per sperare di farcela.
Salendo in quota c’è un uomo, chino su un telo di plastica verde da giardino. Da sotto il telo sbuca una donna e dal suo sguardo traspare la fatica di avere dormito la notte nel bosco sotto zero, insieme al timore di incontrare la polizia. Viaggiano in quattro, due coppie di giovani sposi: Hassan e Amira dal Marocco, Hajar e Mebarak dall’Iraq. Si sono incontrati a Bihać. I due iracheni sono riusciti ad arrivare già una volta in Slovenia, lì la polizia li ha portati alla frontiera croata, poi i croati hanno fatto lo stesso fino alla Bosnia. Tutti e quattro ora vogliono provare a raggiungere una struttura di accoglienza a Zagabria: pare che lì potranno accedere a stanze doppie per marito e moglie. Anche per loro i paradossi non mancano: una volta arrivati nella capitale croata si consegneranno ai poliziotti, sperando di potere accedere alla struttura. Fino ad allora, se la polizia dovesse prenderli, li rispedirà in Bosnia senza risparmiarsi atti di violenza: d’altra parte non sarebbe la prima volta neanche per loro. Amira racconta che lei e suo marito, partiti nel gennaio 2019 da Casablanca, hanno tentato di valicare sette volte, e hanno già speso 15mila euro dall’inizio del viaggio. Ogni volta che sono stati fermati e derubati dei propri soldi dalla polizia croata, sono stati costretti a farsi mandare altro denaro dai parenti.
Le montagne sopra Bihać non sono l’unico valico dove provare ad affrontare “the game”. Il versante più settentrionale del cantone di Una-Sana è un lungo susseguirsi di potenziali attraversamenti lungo il fiume Glina. Qui, nei dintorni della città di frontiera di Velika Kladuša, vengono messi in atto i respingimenti (pushback). In una casa diroccata a pochi passi dal confine, incontriamo un gruppo di ragazzi pakistani. Uno di loro si chiama Muhammad Alì. “Come il pugile”, ci dice. Ha ventitré anni e vorrebbe raggiungere Roma: lì ha uno zio che lavora in una pizzeria. Il proprietario delle terre intorno alla casa è un agricoltore e ha donato loro una grossa stufa a legna in ghisa per potersi scaldare: è emozionante assistere al momento in cui provano a scambiarsi parole, ciascuno nella propria lingua. Si capiscono evidentemente con una comunicazione non verbale ed emerge una solidarietà umana che fa sperare.
Intanto però i rappresentanti politici locali del cantone e delle città della regione stanno soffiando sul fuoco della paura con la popolazione locale, che da un primo momento di solidarietà verso i migranti si sta sempre più attestando sulla diffidenza e il rigetto verso queste persone. Sentimenti che attecchiscono con facilità, data la depressione economica che vive il Paese. Lungo questo confine la polizia croata usa torrette di avvistamento e controlla con i binocoli. Se trova migranti dal suo lato, li scarica vicino al fiume, buttandoli dentro l’acqua per umiliarli. Nei pressi di un ponte utilizzato per attraversare, si vedono piccole cataste di oggetti che sono ormai parte del bosco. Coperte, scarpe, fogli di respingimento dalla Slovenia il cui valore legale è assai discutibile, dato che si tratta di cosiddette “riammissioni” fra Paesi dell’Unione. Ci sono anche carte di merendine, deodoranti, indumenti. Sui fogli dei respingimenti, nomi di giovani, tutti sotto i trent’anni. Oltre a intimare l’abbandono del Paese prevedono anche multe per un importo di 500 Euro. E poi cellulari, con gli schermi spaccati, e resti di fuochi. Questi però non sono stati accesi dai migranti, ma dalla polizia croata per dare fuoco ai poveri oggetti che trasportavano. E per ricordare loro che non c’è terra, qui, in cui siano i benvenuti.
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