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Diritti / Reportage

Rosarno e il “modello campo” che si ripete. Ritorno nella Piana di Gioia Tauro

Un lavoratore va a una rivendita di oggetti all'interno della baraccopoli di San Ferdinando. È l'11 gennaio 2025 © Salvatore Lucente

A 15 anni dalla rivolta degli sfruttati, la situazione è di nuovo tesa, con episodi di razzismo e condizioni di vita estreme. A San Ferdinando la tendopoli è satura mentre iniziative positive sono isolate dalle istituzioni. Il timore è che gli ingenti finanziamenti pubblici in arrivo possano alimentare ancora la macchina dell’emergenza con un’ulteriore stretta repressiva. Le voci e le pratiche di chi resiste. Il nostro reportage

Tornano alla spicciolata, chi a piedi, tanti in bicicletta, verso l’ingresso, passando davanti a cumuli di rifiuti, i container che ospitano alcune lavatrici donate dal papa, un presidio di assistenza legale tenuto dall’associazione Piccola opera e un avamposto della Caritas che qualche giorno al mese distribuisce panni.

Dentro il cancello, si apre il mondo della baraccopoli di San Ferdinando, l’insediamento informale a pochi passi da Rosarno dove trovano rifugio oltre 800 lavoratori migranti della filiera agrumicola della Piana di Gioia Tauro, estremo lembo tirrenico della Calabria prima di affacciarsi sul Canale di Sicilia.

Vecchie tende del ministero dell’Interno, baracche costruite con materiali di recupero, piccoli shop, qualche chioschetto dove si cucina cibo alla brace, una moschea per permettere alle diverse comunità musulmane di pregare. La fornitura di corrente è stata portata solo la scorsa settimana, per potersi lavare c’è chi provvede a scaldare al fuoco grandi taniche d’acqua.

All’abbandono abitativo si affianca la precarietà delle condizioni medico-sanitarie a cui cercano di rimediare Emergency, con il suo polibus e un ambulatorio fisso a Polistena, e Medici per i diritti umani, con un altro ambulatorio mobile e un presidio nel paese di San Ferdinando, che solo nei primi due mesi di campagna ha già effettuato 380 interventi medici.

Una fontana in condizioni precarie nella ex area container a San Ferdinando. Gennaio 2025 © Salvatore Lucente

“Già questo indica la necessità di medici sul territorio -spiega il responsabile del progetto, Ibrahim Diop-, le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti, lontane, anche chi ha diritto al Sistema sanitario nazionale non riesce ad accedervi”.

Sembrerebbe una situazione di emergenza assoluta, eppure parliamo di un’area dove da trent’anni c’è una costante presenza di lavoratori migranti, parte essenziale dell’economia della zona, e non si contano più i milioni di euro di investimenti pubblici destinati ad “accogliere”.

“Siamo qui dal 2011, e il nostro obiettivo sarebbe quello di renderci inutili, di mirare all’empowerment della persona -sono le parole di Mauro De Stefano, responsabile d’area di Emergency-. Però se la persona torna a vivere nella tendopoli, passa il tempo, invecchia, magari cade nell’alcol, allora diventa tutto più difficile. Servono azioni mirate, per questo abbiamo chiesto un incontro con la prefettura e il coinvolgimento dell’Asp”.

È un discorso che va oltre la necessità sanitaria, “se il lavoro è precario e l’abitare è disastroso, và da sé che le condizioni di salute peggiorano, e diventa anche più difficile curare -prosegue De Stefano- ma la causa del problema è che le persone vivono in quelle condizioni. Se si continuano a creare questi luoghi confinati, chiusi che non hanno un accesso comunicativo verso l’esterno, poi l’isolamento esplode. Non siamo sicuramente alla situazione della rivolta di Rosarno, ma il rischio è dietro l’angolo, basta una scintilla”.

Invece tutto si ripropone allo stesso modo, da quel 2010 che scosse i braccianti di Rosarno, passando per il devastante incendio che nel 2018 uccise Becky Moses, quando nella vecchia baraccopoli di San Ferdinando si arrivava a superare le duemila presenze. O le ruspe di Salvini nel marzo del 2019 e gli oltre 500mila euro spesi per sgomberare quel campo, rimpiazzato nei mesi successivi da una nuova tendopoli allestita dal ministero dell’Interno solo a qualche centinaio di metri più in là. Finiti i fondi per la gestione, si è man mano trasformata nella baraccopoli che vediamo oggi.

La moschea allestita nella baraccopoli di San Ferdinando dalle diverse comunità musulmane. Gennaio 2025 © Salvatore Lucente

“Una sorta di ciclo continuo inaugurato dopo i fatti di Rosarno, in cui si è imposto il ‘modello campo’ -racconta Peppe Marra dell’Unione sindacati di base (Usb) Calabria-, abbiamo assistito negli anni a un dispendio di risorse enorme che fondamentalmente non ha mai portato a nulla di concreto”. In un territorio tra quelli a più alto tasso di spopolamento “avresti potuto investire nel recupero delle case vuote, rompendo l’elemento di concentrazione e quindi di ghetto, e in più riattivando l’economia territoriale”. Superando anche l’assistenzialismo, “stiamo parlando di lavoratori, la beneficenza non va bene, devono pagare l’affitto. Spesso quando si affronta la questione si scade o nell’umanitarismo, o nelle ruspe di Salvini”.

Invece gli interventi pubblici, pur cercando di superare il modello tendopoli, hanno riproposto continuamente logiche di assistenzialismo e di esclusione. Come il Borgo sociale di Taurianova inaugurato a maggio 2024, composto da moduli abitativi, o i 90 posti del Villaggio della solidarietà di Rosarno, aperto dopo decine di anni di attesa.

Interventi “quantificati non in base alla popolazione reale ma in base a una stima della manodopera che servirebbe alle aziende agricole, fatta senza considerare il lavoro nero e grigio, o il fatto che non tutti i migranti presenti negli insediamenti lavorano nei campi”, conclude Marra. 

I campi coltivati ad agrumi dalla rete Sos Rosarno nella piana di Gioia Tauro. Gennaio 2025 © Salvatore Lucente

San Ferdinando e Rosarno sono peraltro stati inseriti nel “decreto Caivano”, la regia dei fondi è affidata al commissario di crisi e alla Regione ma i Comuni hanno la possibilità di presentare delle idee di investimento da valutare. Quale sarà il risultato di questi nuovi interventi sarà tutto da vedere, non si capisce perché a livello istituzionale non si potrebbe agire diversamente.

“Manca la volontà politica, queste persone non hanno un peso politico, sono tenuti lontano dalla città anche 20 chilometri, senza diritti, senza servizi. Visibili dalle sei del mattino alle quattro del pomeriggio, poi devono tornare nel buio”, racconta Ibrahim Diabate dell’Ostello Dambe So, che durante la sua vita per i campi di Rosarno ci è passato anche come lavoratore.

Eppure proprio questa piana racconta di alternative possibili, come l’esperienza decennale di abitare diffuso all’interno di case sfitte resa possibile grazie all’azione di intermediazione e garanzia della Caritas locale nella frazione di Drosi, nel Comune di Rizziconi, che ha permesso a quasi 200 lavoratori di trovare un alloggio portando anche una ricaduta benefica al territorio.

O come lo stesso Ostello Dambe So, “casa della dignità” in lingua bambarà, messo in piedi da Mediterranean hope e la Federazione delle chiese evangeliche d’Italia. Un progetto sostenibile che offre mini appartamenti ricavati all’interno di uno stabile recuperato a 64 lavoratori migranti, in cambio di una quota mensile.

“La maggior parte di questi immigrati sono lavoratori alla ricerca di una dignità, sono qui a spaccarsi la schiena per poter avere un pezzo di pane da mandare alla famiglia. Non vogliono stare nei ghetti, vogliono poter pagare per avere un posto con tutte le comodità che ha una casa”, conclude Diabate. A rendere ancora più sostenibile il progetto, le aziende che partecipano al circuito virtuoso costruito intorno a Etika, una rete con Sos Rosarno e la Cooperativa Mani e Terra.

“Un possibile ragionamento sul prezzo equo, che tiene conto del rispetto del contratto di lavoro, della qualità di ciò che produci e di una quota che genera welfare”, spiega Francesco Piobbichi di Mediterranean hope, perché “l’accoglienza dei lavoratori braccianti secondo noi la devono pagare le imprese, è una questione di responsabilità sociale”. Un modello che spende “circa 20 volte meno rispetto agli interventi istituzionali, assolutamente privi di un ragionamento costi-benefici. Se lo abbiamo fatto noi, lo Stato potrebbe farne mille”.

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