Diritti / Inchiesta
Richiedenti asilo: i numeri record delle revoche dell’accoglienza
Tra il 2016 e il 2017, almeno 22mila migranti hanno perso il diritto di essere ospitati nei centri. E sono solo i dati di 35 prefetture su un centinaio, le sole che hanno fornito i dati -inediti- ad Altreconomia
M. S. ha una moglie e sei figli. Nel 2016 ha lasciato il suo Paese, il Pakistan, e raggiunto l’Italia. Dopo aver fatto domanda di protezione internazionale viene sistemato in un centro di accoglienza straordinaria (CAS) del Nord Italia, in Lombardia, con altre 200 persone. Riesce a trovare un lavoro nel campo dell’edilizia, a guadagnare qualcosa e a spedirne parte alla sua famiglia. Nella primavera 2017 il suo datore di lavoro gli propone una trasferta a Roma. Ne parla con il direttore del centro di accoglienza dove è ospitato, il quale, d’intesa con la prefettura competente, gli accorda un permesso ad assentarsi per un mese.
Nel frattempo, però, il campo viene smantellato e lui ricollocato in uno nuovo. Cambia il direttore della struttura e cambia il parere: nessun permesso, “deve rientrare”. M. S. non ha scelta, decide di tenere il lavoro e andare a Roma. Il 21 aprile 2017 la sua vita cambia. La prefettura gli contesta l’“allontanamento ingiustificato” dal centro e gli “revoca” le misure di accoglienza. Avrebbe violato il decreto legislativo 142/2015, la norma che è andata a recepire due direttive europee sull’accoglienza e sulle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato (la 2013/33 e la 2013/32). M. S. rimane a tutti gli effetti un richiedente asilo ma quel provvedimento della prefettura lo rende privo di qualunque misura di accoglienza logistica, economica, informativa, legale o di altro genere. Può restare in Italia ma deve trovarsi una nuova sistemazione. Le alternative sono scoraggianti: la strada o la frontiera. Ma M. S. è fortunato perché una rete di conoscenti si organizza e lo accoglie. Da quel momento nella sua biografia c’è un nuovo status, quello di “revocato”.
In Italia, a oggi, il ministero dell’Interno non sa quanti siano i richiedenti asilo nelle condizioni di M. S., cioè gli espulsi dal circuito di accoglienza. “Stiamo procedendo al monitoraggio e alla raccolta dei dati presso le Prefetture e provvedendo a stilare una statistica che sarà disponibile a breve”, ha fatto sapere il Viminale a metà gennaio 2018.
Eppure lo “strumento” della revoca esiste da quasi tre anni e consente alle Prefetture di farvi ricorso in casi diversi. I più frequenti sono la “mancata presentazione presso la struttura individuata ovvero l’abbandono del centro di accoglienza da parte del richiedente, senza preventiva motivata comunicazione” oppure la “violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture […] compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti”. In attesa del ministero, però, quasi un terzo delle Prefetture italiane ha accettato di comunicare in esclusiva ad Altreconomia i dati relativi ai provvedimenti del biennio 2016-2017. E sono impressionanti.
In quell’arco temporale, infatti, 35 uffici prefettizi hanno emesso oltre 21.900 provvedimenti. A Bologna, dove all’inizio del 2018 risultano ospitati 2.214 migranti, le revoche sono state addirittura 2.202. Significa che in due anni è stato compiuto una sorta di “turnover” degli “ospiti”. Come ad Ancona, dove i migranti ospitati nelle strutture di accoglienza a gennaio 2018 erano 1.378 e ben 1.342 i revocati in soli due anni, il 97%. E così ad Ascoli: 594 richiedenti censiti a inizio di quest’anno e 500 revocati nei due anni precedenti (l’84%). Numeri altissimi anche a Nuoro -908 provvedimenti di revoca in due anni-, Perugia (1.528 migranti usciti dal circuito dell’accoglienza), Potenza (1.428). Anche a Gorizia e a Pordenone le percentuali di sostituzione sono a doppia cifra: 858 revocati per 1.091 richiedenti nel primo caso e 938 su 1.116 nel secondo. All’Aquila i revocati sono stati 677 tra 2016 e 2017. “Si ignora la sistemazione, collocazione, destinazione dei destinatari dei provvedimenti atteso che trattasi nella quasi totalità di allontanamenti volontari”, fa sapere il dirigente dell’area Immigrazione. A Lecco il rapporto scende al 50%, quasi come ad Arezzo.
A oggi, il ministero dell’Interno non sa quanti siano i richiedenti asilo espulsi dal sistema di accoglienza. “Stiamo raccogliendo i dati”
Proiettando questi dati a livello nazionale e facendo una stima al ribasso si ottengono qualcosa come 80mila provvedimenti di revoca delle misure di accoglienza. Significa che altrettante persone, per diverse ragioni, sono state messe fuori dai centri esattamente come M. S.. È una cifra enorme, specie se confrontata ai 182.863 migranti ospitati in tutte le strutture di accoglienza al 22 gennaio 2018 (i CAS, quelli del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati -SPRAR-, quelli di prima accoglienza e gli hotspot). Da Rieti a Prato, da Oristano a Verona, buona parte degli uffici del Governo non sanno dove abbiano trovato sistemazione gli interessati, non sono tenuti a farlo. Se da parenti, amici, conoscenti, presso dormitori pubblici o enti di assistenza privati oppure abbiano deciso di abbandonare il Paese. Hanno fatto domanda di asilo e qualora dovessero risultare irreperibili per oltre un anno prima del colloquio con la commissione territoriale, la loro pratica verrebbe dichiarata estinta. Ma i ricorsi ai Tar contro i provvedimenti amministrativi delle Prefetture sono pochissimi. Agrigento: 195 revoche e cinque ricorsi. Siracusa: 377 provvedimenti e appena tre ricorsi.
7% i revocati nel biennio in provincia di Trieste rispetto al totale degli accolti. È il dato più basso tra quelli raccolti per questa inchiesta
Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati Onlus di Trieste e vice presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), si aspettava un “utilizzo sproporzionato di questa misura” ma non in questi termini. Per individuare una delle cause del ricorso massiccio alle revoche da parte delle Prefetture, Schiavone riprende in mano la normativa comunitaria che il nostro Paese ha recepito nel 2015. O avrebbe dovuto farlo. In particolare la direttiva 2013/33 che riguarda l’accoglienza dei richiedenti asilo. Alla “revoca” è dedicato un articolo che s’intitola “Riduzione o revoca delle condizioni materiali di accoglienza” (Art. 20). “La direttiva europea ci dice che in tema di revoca dell’accoglienza bisogna far ricorso a un principio di gradualità, che invece in Italia non è stato minimamente rispettato”, spiega Schiavone. Non è un caso infatti che nel decreto 142 non ci sia alcuna traccia della parola o del concetto di “riduzione”. “Questo non significa che di per sé la revoca delle misure di accoglienza sia uno strumento illegittimo -chiarisce Anna Brambilla, avvocato e socio di ASGI- ma in questo modo si è dato in mano ai prefetti un potere enorme che questi esercitano con assoluta discrezionalità, talvolta senza comunicare l’avvio del procedimento all’interessato, e in maniera molto differenziata da territorio a territorio”. A Napoli, ad esempio, la prefettura ha messo a punto un “regolamento di accoglienza” da far sottoscrivere a ciascun “ospite” che nell’elenco “doveri” intima di “rispettare gli usi ed i costumi delle comunità locali”. Ed è sufficiente una singola “assenza ingiustificata anche di un solo giorno” per procedere alla revoca di un “diritto soggettivo fondamentale”, come ricorda Schiavone. Anche chi “protesta con violenza verbale”, magari alla mensa, o tiene “comportamenti non consoni alla regolare vita in comune del centro” è fuori. A Verona invece la prefettura dispone la revoca per l’“assenza non autorizzata nelle ore notturne, anche per una sola notte”. Mentre a Pistoia può ricadere su chi si “dedica all’accattonaggio”, acquista, detiene o vende “beni di dubbia provenienza” o viaggia senza biglietto sui mezzi pubblici. “Quello che colpisce di questi regolamenti è il linguaggio -prosegue Brambilla-. Non è basato sulla responsabilizzazione della persona ma tradisce un’idea di esercizio del controllo su chi è accolto. Un approccio repressivo che non ha nulla a che fare con il diritto all’accoglienza”.
“La direttiva europea ci dice che in tema di revoca dell’accoglienza bisogna far ricorso a un principio di gradualità, che in Italia non è stato rispettato” – Gianfranco Schiavone
È un clima che non si respira soltanto in alcune prefetture. Chiamato a esprimersi a metà dicembre 2017 in merito a una revoca disposta in Liguria, il Consiglio di Stato ha sostenuto in un’ordinanza che anche un solo mancato pernottamento nel centro “integra comunque una grave violazione delle regole della struttura” perché in questo modo “lo straniero si sottrae del tutto al controllo dell’autorità”. Un principio inedito visto che nella direttiva europea non c’è alcuna traccia di un “controllo” in questi termini. Semmai è il contrario dato che questa richiama gli Stati membri a mettere in atto “opportuni meccanismi” in grado, questi sì, di assicurare “adeguate misure di orientamento, sorveglianza e controllo del livello delle condizioni di accoglienza”.
99% i revocati nel bienno 2016-2017 dalla prefettura di Bologna rispetto al totale dei migranti accolti. Seguono quella di Ancona (97%) e Ascoli Piceno (84%)
Ma a modo loro anche gli alti numeri delle “revoche” sono spia della qualità o meno dell’accoglienza. Nei casi di “allontanamento volontario”, infatti, sono spesso gli stessi richiedenti ad abbandonare i centri pur di trovare una sistemazione che ritengono più dignitosa. Schiavone cita il caso di Trieste, dove ha modo di operare. Su 1.329 accolti nelle strutture censiti al 2018, i revocati del biennio precedente risultano appena 93, il 7% circa. A Pordenone, a pochi chilometri di distanza, il rapporto schizza all’84% e a Gorizia al 78%. “Laddove è diffusa l’attenzione al percorso di inserimento sociale dei rifugiati -riflette Schiavone-, le tensioni interne alle strutture di accoglienza vengono gestite e ricondotte alla loro effettiva gravità, spesso minima. E i provvedimenti di revoca sono assunti come extrema ratio nei soli casi di situazioni penalmente rilevanti, senza indebolire un soggetto già debole in maniera drammatica e improvvisa”.
“Questo non significa che la revoca sia uno strumento illegittimo. Ma si è dato in mano ai prefetti un potere enorme, che esercitano con assoluta discrezionalità” – Anna Brambilla
All’appello manca ancora il 70% delle prefetture italiane. Tra queste Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze. Intere Regioni: Calabria, Puglia, Valle d’Aosta, Molise. Il commissariato del governo di Bolzano -cui va dato atto di aver risposto (450 provvedimenti nel biennio)- ha involontariamente fornito una spiegazione di questa scarsa propensione alla trasparenza: i dati sulle revoche, ha scritto in una missiva indirizzata al ministero, sarebbero “delicati” perché “se resi pubblici potrebbero divenire oggetto di strumentalizzazione”.
Intanto M. S. è stato tra i pochissimi a fare ricorso. E ha fatto bene. Nel settembre 2017 il Tar Lombardia ha accolto la sua domanda di sospensiva della revoca e riconosciuto un “danno grave e irreparabile” a suo carico. L’udienza di merito è slittata di un anno. È stato reintegrato nel circuito dell’accoglienza e ha avviato la procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato. Non è più un “revocato”.
© riproduzione riservata