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Reddito di cittadinanza: continua la discriminazione tra italiani e stranieri

I requisiti di accesso alla misura di inclusione continuano a penalizzare i cittadini extracomunitari. Lo confermano gli ultimi dati dell’Inps: solo il 9% dei quasi tre milioni di beneficiari sono stranieri. Un dato bassissimo nonostante l’incidenza di povertà assoluta per questi ultimi sia pari al 26,9% contro il 5,9% dei cittadini italiani nel 2019. A breve si esprimerà la Corte costituzionale

I requisiti di accesso al Reddito di cittadinanza si confermano discriminatori per i cittadini extracomunitari. È quanto emerge da un’analisi approfondita dei dati pubblicati dall’Osservatorio statistico dell’Inps che periodicamente fornisce informazioni statistiche sui percettori della misura di sostegno: solo il 9% dei quasi tre milioni di beneficiari totali sono stranieri. Una percentuale che rimane minima (a gennaio erano il 6%) nonostante, da dicembre ad agosto, i cittadini extracomunitari coinvolti siano aumentati percentualmente di circa il doppio rispetto agli italiani.

I dati aggiornati all’agosto di quest’anno segnalano infatti che le persone coinvolte nell’assegnazione del reddito di cittadinanza sono oltre 2,96 milioni con un aumento significativo dei beneficiari dal dicembre scorso. Se si analizzano i dati disaggregati per cittadinanza, si nota come i beneficiari italiani siano aumentati del 21%, mentre i cittadini stranieri extracomunitari del 48%. L’impennata del numero di beneficiari stranieri si verifica a partire dal mese di maggio 2020 in poi: se da gennaio a marzo (compreso) si registra un incremento dell’8%, nei tre mesi successivi l’aumento raggiunge il 22%. Sono presumibilmente due le ragioni che spiegano questo andamento differente. La prima è data dalla circolare del ministero del Lavoro del 14 aprile 2020 che ha stabilito che per soddisfare il requisito della residenza da almeno dieci anni sul territorio non era necessaria la residenza anagrafica ma bastava quella effettiva, dimostrabile da elementi “concludenti”. Ma non è questa la ragione principale dell’aumento di beneficiari stranieri. Uno dei requisiti maggiormente discriminatori segnalati fin dall’inizio dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e descritti su Altreconomia è la richiesta del permesso di soggiorno per lungo periodo, una “carta” cui possono accedere coloro che sono in possesso di un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni e dimostrino un reddito minimo e un alloggio idoneo. La contraddizione è che si richiede un tenore di vita alto ma al tempo stesso si inserisce un tetto di reddito massimo per poter accedere al beneficio. Con molta probabilità, molti di coloro che avrebbero potuto ottenere il Reddito di cittadinanza perché possedevano il permesso di soggiorno richiesto non rispettavano i requisiti di reddito. Con la crisi lavorativa portata dal Covid-19, diverse persone trovandosi senza impiego hanno potuto quindi accedere alla misura.

“Questo conferma che i due requisiti hanno effetti discriminatori nei confronti degli stranieri -commenta l’avvocato Alberto Guariso, socio di Asgi-. Non appena il requisito dei 10 anni è stato interpretato in modo più flessibile, le loro domande sono immediatamente aumentate ma gli effetti inutilmente limitativi rimangono: specie quello del permesso di lungo periodo che dovrebbe attestare un già avvenuto inserimento sociale per accedere a una prestazione che serve appunto all’inserimento sociale”. In effetti, l’aumento del 48% di beneficiari provenienti da Paesi extracomunitari dimostra come, nel momento in cui si allentano alcune rigidità nell’accesso, il numero di beneficiari cresce esponenzialmente. Inoltre, l’aumento riguarda persone che probabilmente hanno una situazione economica migliore della maggior parte degli stranieri presenti sul territorio. Il risultato è che solo il 9% su un totale di oltre 2,96 milioni di percettori del reddito di cittadinanza sono cittadini extra-Ue. Un dato bassissimo, nonostante –ultimo report Istat sulla povertà in Italia alla mano- l’incidenza di povertà assoluta per gli individui stranieri è pari al 26,9% contro il 5,9% dei cittadini italiani nel 2019. Nello stesso rapporto si segnala anche che 400mila famiglie straniere vivono in condizioni di povertà assoluta: i nuclei stranieri familiari destinatari del Reddito di cittadinanza sono poco più di 80.700.

“Aspettiamo che la Corte costituzionale si pronunci sulla legittimità del permesso di soggiorno per lungo periodo come requisito per accedere alle prestazioni di sostegno del reddito -continua Guariso-. Tra pochi mesi deciderà sulla questione sollevata dal tribunale di Brescia e più avanti sulla questione sollevata da quello di Bergamo. La prima riguarda ancora il Reddito di inclusione (Rei), oggi non più in vigore; la seconda riguarda proprio il reddito di cittadinanza. Se la Corte dovesse decidere per la incostituzionalità della richiesta del permesso di lungo periodo tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti potrebbero accedere alla prestazione”. Resterebbero comunque esclusi coloro che non hanno maturato i 10 anni di residenza ma su questo non risulta vi siano giudizi pendenti. C’è poi un’altra via più “politica” che potrebbe portare alla soluzione del problema. È quella collegata al passaggio in Senato del cosiddetto “Family act”, votato all’unanimità dalla Camera il 21 luglio di quest’anno. “Nel disegno di legge -spiega l’avvocato- si prevede una prestazione unica e modulare per le misure di sostegno alla famiglia recuperando il dettato dell’articolo 41 del Testo unico Immigrazione che garantisce l’accesso alle prestazioni per le persone che posseggano un permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno. Nonostante sia sempre stato in vigore, l’articolo 41 viene costantemente svuotato di significato poiché nelle specifiche misure vaniva sempre inserito il requisito del permesso di lungo periodo”. La vicenda del “Family act” riguarda le prestazioni familiari e dunque non coinvolge direttamente la questione delle prestazioni contro la povertà come il reddito di cittadinanza. “Tuttavia -conclude Guariso- sarebbe un segnale importante che potrebbe portare a un’affermazione generalizzata del principio di uguaglianza nelle prestazioni sociali: un po’ come avvenuto per le prestazioni emergenziali del Covid-19”.

Dall’eventuale via libera del Senato al provvedimento, il Governo avrà un anno di tempo per varare i decreti di attuazione. Nel frattempo la discriminazione si perpetua e la povertà, sempre di più, condiziona la vita di migliaia di persone.

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