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Questa è una rapina: storia di 400 miliardi offshore

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Una quota limitatissima di persone ha sottratto negli anni al fisco italiano una montagna di denaro. La situazione non è più accettabile. La rubrica di Alessandro Volpi

Tratto da Altreconomia 267 — Febbraio 2024

I numeri dell’evasione e dell’elusione fiscale in Italia fanno sempre più impressione e dovrebbero essere al centro di una vera battaglia identitaria. Secondo gli ultimi dati forniti dalla Paris school of economics, gli italiani più ricchi hanno trasferito nei paradisi fiscali 196,5 miliardi di euro, un valore più che doppio rispetto a dieci anni fa.

Di questa cifra, 181 miliardi sono depositati in conti correnti di banche con sede in giurisdizioni offshore e investiti in prodotti finanziari di fondi che hanno sede in Paesi a tassazione agevolata. Anche quando queste risorse vengono trasferite in maniera legittima sottraggono al fisco del nostro Paese cifre significative.

Per una stima complessiva del gettito tolto alla comunità bisognerebbe poi aggiungere la mole di miliardi utilizzata per acquistare opere d’arte, oro, gioielli, auto di lusso, yacht e jet privati: beni su cui non si opera un prelievo perché non dichiarati o pagati utilizzando i paradisi fiscali. Senza dimenticare i circa 150 miliardi di euro in contanti depositati presso le cassette di sicurezza.

Se sommiamo questi importi arriviamo a oltre 400 miliardi di euro: una cifra enorme che una percentuale limitatissima della popolazione italiana sottrae al fisco. Quegli stessi cittadini, però, beneficiano -ad esempio- del diritto universale all’assistenza sanitaria pubblica, soprattutto in casi di emergenza, pagata da lavoratori con redditi infinitamente inferiori.

Sono 380 i milioni euro che l’Italia potrebbe incassare nel 2025 per via della Global minimum tax, che prevede un’aliquota del 15% sugli utili delle multinazionali con fatturato superiore a 750 milioni. Un importo minimo se confrontato ai ricavi dei colossi della Rete

Una simile situazione non dovrebbe essere più accettabile e servirebbe, come accennato in apertura, una battaglia identitaria fondata su una visione culturale dell’essere comunità, su norme radicalmente diverse da quelle attuali e su controlli veri e certamente praticabili dal momento che stiamo parlando di poco più dell’uno per cento della popolazione.

A questo riguardo, possono essere utili altre due considerazioni. La prima ha a che fare con l’Europa: in base ai dati più recenti disponibili, ogni anno mancano al fisco del nostro Paese circa dieci miliardi di euro perché alcuni contribuenti italiani hanno scelto di pagare le imposte in Olanda, Lussemburgo e Irlanda. Si tratta di Paesi che hanno la stessa moneta italiana (l’euro), che beneficiano di varie condizioni europee (nel caso olandese della “Borsa” che definisce il prezzo del gas nell’Unione europea) ma che sottraggono ogni anno, per effetto dell’appartenenza all’eurozona, risorse preziose alla bilancia dello Stato.

Sono gli stessi Paesi, rappresentati nella Commissione europea, che poi decidono se la spesa pubblica italiana è troppo elevata ai fini del Patto di stabilità. Sembra impossibile ma è così: Stati che sottraggono risorse decisive all’Italia sono determinanti nel definire se la nostra spesa sociale è sostenibile o meno.

La seconda considerazione è riconducibile alla nuova normativa internazionale in materia di fisco. Nel 2024, dopo lunghe trattative, è entrata in vigore la Global minimum tax che prevede un’aliquota del 15% sugli utili delle società multinazionali con fatturato superiore a 750 milioni di dollari. Da tale imposta l’Italia incasserà nel 2025 poco più di 380 milioni, un’inezia rispetto ai fatturati miliardari delle big tech che operano nel nostro Paese.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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