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Dietro il “libero mercato” regna il monopolio finanziario. Alcuni fatti recenti lo dimostrano

© Julian Hochgesang - Unsplash

Mentre BlackRock punta sempre più a sostituirsi alla presenza degli Stati nei nodi fondamentali del trasporto di persone e merci, oltreché dei servizi, definendo il doppio monopolio di tariffe e proprietà, la Borsa americana approva la creazione di 11 fondi legati ai Bitcoin. Passaggi storici (e pericolosi), spiega Alessandro Volpi

La trasformazione in senso finanziario dell’economia internazionale sta conoscendo un’ulteriore, brusca, accelerazione. Il fondo finanziario BlackRock ha comprato per 12,5 miliardi di dollari -in gran parte cedendo proprie azioni- Global Infrastructure Partners che è, a sua volta un fondo che gestisce attivi per 100 miliardi di dollari e ha nel proprio portafoglio numerose partecipazioni nel settore delle infrastrutture in giro per il mondo.

In Italia, per dire, possiede il 50% di Italo. Questo acquisto da parte di BlackRock si muove nella direzione di ottenere il controllo delle principali società che gestiscono le reti infrastrutturali, dai porti, alle ferrovie, alle autostrade, passando per l’energia e gli acquedotti. In sintesi, BlackRock punta a sostituirsi alla presenza degli Stati nei nodi fondamentali del trasporto di persone e merci, oltreché dei servizi, definendo un doppio monopolio; quello delle tariffe e quello della proprietà azionaria con rendimenti, in entrambi i casi, altissimi. Questa scomparsa del mercato in nome del monopolio finanziario si manifesta attraverso numerose altre forme.

Apple e Microsoft valgono in Borsa poco meno di 3mila miliardi di dollari ciascuna; dunque più del Prodotto interno lordo giapponese. Sono le due società con la maggiore capitalizzazione del Pianeta e hanno in mano il controllo delle tecnologie in grado di condizionare in profondità il modo di pensare, di rappresentare e di interpretare il mondo. La narrazione comune è che siano in costante concorrenza e che questa sia la forza del mercato. Ma è proprio così?

I principali azionisti di Apple e Microsoft sono gli stessi tre fondi, Vanguard, BlackRock e State Street, che in entrambi i casi controllano circa il 20% del capitale totale. Chi decide le strategie delle due società sono gli stessi soggetti finanziari che, evidentemente, decidono che cosa sia il mercato, cancellando ogni reale concorrenza, ormai estranea a tutti i settori fondamentali dell’economia globale. In tali condizioni celebrare il libero mercato significa praticare la religione fideistica del monopolio finanziario a cui riservare la proprietà privatistica di ogni forma di innovazione.

In questi giorni poi è intervenuta una decisione storica che la stampa e i media, in larga misura, tendono a ignorare. L’autorità regolatrice della Borsa americana (Securities and exchange commission, Sec) ha approvato la creazione di ben undici Exchange-traded fund (Etf) legati ai Bitcoin. Perché si tratta di una decisione storica? Perché con tale autorizzazione i grandi fondi, BlackRock e Fidelity in primis, potranno vendere questo “prodotto” alla clientela retail, dunque anche a piccoli risparmiatori e a fondi pensione, trasformando i Bitcoin in uno strumento finanziario di largo consumo: uno strumento verso cui si indirizzeranno i risparmi di fasce estese di popolazione che ai Bitcoin legheranno una parte non trascurabile del proprio destino. Nel caso dei fondi pensione, magari, senza neppure saperlo.

Di nuovo, siamo di fronte a un processo di profondo cambiamento in direzione finanziaria senza che esista una discussione pubblica né tantomeno una consapevolezza. Naturalmente gli Etf sui Bitcoin, in Italia, pagheranno un’imposta del 26%, cioè meno di un lavoratore dipendente che guadagna in un anno 30mila euro lordi.

A questo riguardo risulta indispensabile un’ultima considerazione. I 500 individui più ricchi del mondo hanno visto crescere il loro patrimonio nel 2023 di 1.500 miliardi di euro. Gran parte di questo incremento dipende dal fatto che i loro titoli finanziari hanno visto crescere moltissimo il proprio valore. Una simile impennata, che peraltro tende a ripetersi ogni anno, non conosce alcuna imposizione fiscale perché i titoli vengono tassati solo in termini di plusvalenze quando sono venduti, mentre i dividendi scontano un’imposizione assai limitata, in Italia il 26%, un’aliquota, come ricordato, poco più alta di quella che pagano i redditi fino a 28mila euro lordi. In altre parole, i super ricchi che hanno visto lievitare il loro patrimonio per la crescita dei valori finanziari e che hanno ricevuto dividendi plurimilionari pagano solo il 26%, come un lavoratore dipendente che guadagna netti, al mese, 1.300-1.400 euro. Ma quando immagineremo un sistema fiscale che impedisca questa colossale ingiustizia? Quando la politica avrà questo coraggio?

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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