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Finanza e privatizzazioni: l’azzardo continua e a perderci è il mondo del lavoro

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Il governo italiano annuncia di poter dismettere un’ulteriore quota pubblica in Eni, così come destinare parte delle risorse del Pnrr alle reti “strategiche” già in mano ai grandi fondi. Scelte che si inseriscono in un panorama internazionale dominato dalle dinamiche speculative. Dove stravincono in pochi. L’analisi di Alessandro Volpi

Il duplice processo di privatizzazione e di finanziarizzazione sta procedendo con grande rapidità. Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha dichiarato che “avrebbe senso” ridurre la quota dello Stato in Eni. Per avviare questa dismissione, l’esponente della Lega si è avventurato in un tema molto tecnico. In pratica, ha sostenuto Giorgetti, siccome per effetto del buyback, cioè del riacquisto da parte di Eni delle proprie azioni, e della loro conseguente cancellazione, la quota pubblica è salita al 34%, si potrebbe vendere il 4% e lucrare così due miliardi di euro: una prospettiva quantomeno singolare.

In questo momento Eni sta macinando extra-profitti che, peraltro, lo Stato non riesce a tassare. Dunque, Eni sta producendo dividendi lucrosi per lo Stato. Ora, in simili condizioni, ci si aspetterebbe che lo Stato aumentasse la propria quota in Eni, magari arrivando al controllo pubblico e invece il “superministro” propone di cederne il 4% perché è meglio rimanere al 30% e portare in cassa le briciole, rinunciando ai dividendi futuri e soprattutto trasferendoli ai grandi fondi finanziari. La proposta di porre in essere questa operazione è giunta a Giorgetti -come lui stesso ha dichiarato nel question time alla Camera- da alcune grandi banche d’investimento che sono molto facilmente individuabili.

In quest’ottica le privatizzazioni rappresenteranno, con estrema probabilità, la svendita delle parti migliori del patrimonio pubblico. Nel frattempo, la fine del mercato tutelato dell’energia sollecita, tra le tante, una considerazione in merito alla natura stessa del “mercato” in questione. Dopo la cessazione della tutela, gas ed elettricità saranno ancor più nelle mani di un numero limitatissimo di società che presentano tra i propri azionisti di riferimento gli stessi fondi finanziari. Inoltre, con la fine delle tutele diventeranno ancora più rilevanti le multiutility, da A2A a Iren, Hera, Acea che, guarda caso, sono state tutte rigorosamente quotate in Borsa e altrettanto rigorosamente partecipate dagli stessi grandi fondi finanziari.

La fine del “mercato tutelato” significa, ancor di più, l’avvento del monopolio, rispetto al quale emerge un’altra assurdità. Il governo annuncia che 5,2 miliardi di euro del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono destinati alle infrastrutture e alle reti energetiche “strategiche”. È singolare che questo avvenga mentre la gestione delle reti infrastrutturali è quasi interamente ceduta ai grandi fondi finanziari che ottengono dividendi colossali senza spendere.

Queste scelte italiane non sono un’eccezione ma si collocano bene nel panorama internazionale. Nel mese di novembre le azioni e le obbligazioni in giro per il mondo hanno accresciuto il loro valore di oltre 6.500 miliardi di dollari. In altre parole, i mercati finanziari si impennano, gonfiando i prezzi delle società finanziarie, nonostante gli alti tassi -che avrebbero dovuto limare questo valore- e nonostante l’economia reale sia ferma, fatta eccezione per le piccole scosse negli Stati Uniti. La motivazione è che gli stessi mercati scommettono sulla fine degli alti tassi e quindi su una maggiore liquidità. Ormai tutto si gioca solo sulle dinamiche speculative: gli alti tassi fanno salire il valore dei titoli delle banche, mentre l’inflazione speculativa fa crescere il prezzo dei titoli energetici e se i tassi sembrano scendere partono le scommesse su tutti gli altri titoli azionari e obbligazionari favoriti dalla maggiore liquidità. Questo significa due cose. C’è chi guadagna sempre: i grandi fondi che sono azionisti di tutte queste società e c’è chi perde sempre: il mondo del lavoro che prima paga il conto dell’inflazione, poi subisce i danni dei tassi alti e infine non conosce aumenti retributivi perché, quando i tassi scendono, occorre tutelare i profitti.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. “Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione” (Laterza, 2023) è il suo ultimo libro

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