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Che cosa c’è dietro il giudizio di Moody’s sul debito dell’Italia

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L’ultima delle agenzie di rating che doveva esprimersi sul debito italiano ha formulato un giudizio pilatesco: lascia il debito pubblico ai confini del baratro, appena un gradino sopra la carta straccia, e gli attribuisce una prospettiva stabile. Perché? Gli interessi dei grandi fondi e delle banche. L’analisi di Alessandro Volpi

Moody’s non boccia l’Italia. Il 17 novembre l’ultima delle agenzie di rating che doveva esprimersi sul debito italiano ha formulato un giudizio pilatesco. Lascia il debito pubblico ai confini del baratro, appena un gradino sopra la carta straccia, e gli attribuisce un outlook, cioè una prospettiva, stabile. Le motivazioni sono generiche, richiamando gli effetti di un Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ancora tutto da svolgere, la riduzione dei prezzi dell’energia e una non ben definita “buona volontà” nel contenimento del debito.

In realtà è molto probabile che la motivazione sia un’altra. I grandi fondi (come BlackRock, Vanguard e State Street), che sono i signori del rating, hanno deciso che un debito così grande non potesse diventare insolvente perché è ancora troppa la quantità di tale debito che è nelle mani di banche di cui quegli stessi fondi sono grandi azionisti. Sappiamo infatti che le agenzie di rating hanno come principali azionisti i grandi fondi finanziari e che tali fondi sono presenti, in maniera significativa nelle banche. Le stesse che tramite i finanziamenti della Banca centrale europea (Bce) hanno comprato il debito italiano e ora ne sono largamente imbottite.

Un giudizio negativo che avesse “degradato” ulteriormente il nostro debito pubblico avrebbe costretto quelle banche a svalutarlo pesantemente, con conseguenze devastanti per i loro bilanci. Dunque, la paradossale “forza” dell’Italia, in queste condizioni, sta proprio nel legame simbiotico con le banche. Tuttavia il governo italiano negli ultimi mesi ha fatto una scelta importante, quella cioè di destinare quote crescenti del debito italiano al risparmio nazionale. Il ministero dell’Economia ha così incentivato la creazione di titoli come il Btp Italia e il Btp Valore, destinati a una clientela retail con emissioni di piccolo taglio e con un tasso di interesse legato all’inflazione.

Tali titoli presentano due aspetti positivi per i conti pubblici e per l’economia del Paese. Il primo è che una maggiore quota di debito italiano in mano a investitori nazionali dovrebbe permettere una maggiore stabilità e una minore dipendenza dalle oscillazioni dei mercati internazionali. Il secondo aspetto è rappresentato dal fatto che i maggiori interessi sul debito pagati dallo Stato finiscono ai risparmiatori italiani e pertanto incidono sul Prodotto interno lordo (Pil), migliorandone il rapporto con il debito e quindi la sostenibilità dei conti pubblici.

A oggi la quantità di debito italiano nelle mani dei risparmiatori italiani è ancora troppo limitata; nell’ultimo anno gli acquirenti residenti hanno comprato titoli per una cinquantina di miliardi di euro a fronte di rinnovi per oltre 400 miliardi di euro. Si tratta così di un fenomeno importante ma che non ha raggiunto livelli veramente significativi. Alla luce delle valutazioni delle agenzie di rating e delle considerazioni sopra espresse, viene da chiedere che cosa succederebbe qualora la quota di debito in mano dei risparmiatori italiani salisse molto e si riducesse quella delle banche e di altri investitori internazionali. Il timore forte è che quando si verificasse una situazione di tal genere, i già ricordati signori del rating potrebbero decidere che sarebbe conveniente per loro svalutarlo e ricomprarlo a prezzi più bassi e a tassi più alti. In pratica, un debito nelle mani dei risparmiatori italiani sarebbe poco remunerativo per la grande finanza che potrebbe utilizzare la leva delle agenzie di rating per mettere in difficoltà lo Stato e per costringerlo a una differente politica del debito, certamente a loro più favorevole. L’impressione è che il problema vero non sia il debito in quanto tale ma il potere arbitrario delle agenzie di rating. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. “Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione” (Laterza, 2023) è il suo ultimo libro

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