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Finanza / Opinioni

La finanza degli squali

© George Dagerotip - Unsplash

Il valore di beni fondamentali per la popolazione globale non è determinato dal “mercato” ma da colossali concentrazioni di potere finanziario. Il caso di “Big Pharma” o del settore alimentare. Anche in Italia si può osservare la pervasività dei fondi. Il caso Mediobanca. L’analisi di Alessandro Volpi

In una fase di grande tensione internazionale, con due nuove guerre in corso, la determinazione dei prezzi dei beni vitali per la popolazione mondiale dovrebbero essere oggetto di massima attenzione. In realtà, è sempre più evidente che tali prezzi non dipendono dal mercato ma da monopoli colossali.

Prendiamo il caso di “Big Pharma”, ovvero le dieci principali società farmaceutiche mondiali che hanno un peso decisivo nella determinazione delle “strategie” globali in materia di sanità e cura, hanno tra i loro maggiori azionisti i grandi fondi finanziari. Vanguard possiede infatti il 9,5% di Johnson & Johnson (J&J), il 9,6% di Merck, il 9% di Pfizer e di Abbvie, quasi il 10% di Bristol Myers Squibb e ha partecipazioni minori in Sanofi e AstraZeneca. BlackRock ha il 7,7% di J&J, l’8,1% di Merck, il 7,8% di Pfizer, la stessa percentuale di Abbvie e l’8,2% di Bristol Meyers Squibb, mentre State Street Corporation possiede il 5,5% di J&J, il 4,6% di Merck, il 5% di Pfizer, il 4,4% di Abbvie e la stessa percentuale di Bristol Meyers Squibb.

Gi stessi fondi poi hanno partecipazioni di minor peso in quasi tutte le altre società farmaceutiche che registrano i primi venti fatturati mondiali. Si tratta di un monopolio -in questo caso esercitato in un settore veramente vitale- che è stato in grado non solo di generare grandi fatturati ma soprattutto di garantire altissimi rendimenti in termini di dividendi. È evidente, infatti, che la forza degli annunci dei progressi farmaceutici, abbinati a una costante spinta dei grandi fondi, risulta cruciale nel condizionare i mercati e nel fare i prezzi in maniera ancora più unilaterale persino rispetto ai titoli energetici. In simili condizioni parlare di libero mercato, di interesse pubblico, di accesso universalistico sembra davvero difficile.

Considerazioni analoghe valgono per il settore alimentare dove i fondi appena ricordati sono quelli che svolgono un ruolo decisivo. Se prendiamo le prime dieci società per fatturato in tale ambito troviamo Associated British Foods, di cui Berkshire possiede il 9,2%, Vanguard l’8,5%, BlackRock il 7% e State Street il 4%, Kellogg’s, che è nelle mani di Vanguard per il 9%, di BlackRock per la stessa quota e di State Street per il 3,8%, Mondelez di cui Vanguard detiene il 9,1%, BlackRock il 7,3% e State Street il 4,4%, Pepsico che è posseduta da Vanguard per il 9,3%, da BlackRock per il 7,8% e da State Street per il 4,2%.

Dunque, la filiera dei prezzi agricoli è determinata da Borse di proprietà dei grandi fondi che vi operano scommettendo attraverso gli strumenti speculativi; ma gli stessi fondi sono anche i maggiori azionisti delle quattro principali società che producono beni agricoli e delle più grandi società alimentari. Siamo di fronte a una concentrazione di potere sconosciuta nella storia contemporanea.

Per rendere ancora più chiara la pervasività della presenza di questi giganteschi colossi può essere utile il riferimento a una vicenda finanziaria, presentata dalla stampa e dai media come tutta italiana. In queste settimane, i giornali italiani hanno dato ampio spazio all’elezione del Consiglio di amministrazione (Cda) di Mediobanca, presentandola come uno scontro interno al “capitalismo italiano”. In realtà non è proprio così: il 36% del capitale di Mediobanca è in mano a fondi americani, tra cui BlackRock ha un posto centrale, e un altro 18% proviene dal Regno Unito, ma è in larga parte composto da fondi internazionali.

Dunque, ben oltre il 50% della proprietà di Mediobanca appartiene alla grande finanza globale. La quota in mano agli azionisti italiani arriva a stento al 15%, data la presenza di fondi esteri nella Delfin della famiglia Del Vecchio. Raccontare della lotta in Mediobanca tra due “liste”, con Caltagirone e Delfin contro il Consiglio di amministrazione “italiano” è l’ennesima favola di un giornalismo fin troppo interessato. La finanza italiana non ha più alcuna autonomia e, se non fossimo ormai finiti nelle mani degli squali, non sarebbe neppure così male. O meglio, la finanza italiana è viva per una sola ragione: è ancora il luogo di formidabili prebende e di retribuzioni faraoniche senza però incidere in alcun modo sulla struttura globale del nuovo capitalismo. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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