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Finanza / Opinioni

L’era del monopolio finanziario globale

Dai videogiochi (Microsoft acquista Activision Blizzard) agli idrocarburi (ExxonMobil ingloba Pioneer natural resources): la concentrazione del “mercato” è un dogma. La regia è nelle mani dei grandi fondi (BlackRock, Vanguard, State Street). Un problema di “sovranità”, come dimostra l’affare della rete Tim. L’analisi di Alessandro Volpi

Il monopolio finanziario globale è sempre più evidente. Due esempi recenti possono chiarirlo bene. Il primo riguarda Microsoft che ha acquistato per 69 miliardi di dollari Activision Blizzard, uno dei principali produttori di videogiochi del Pianeta, dando vita così ad un colosso in grado di determinare i prezzi di un’infinità quantità di servizi e prodotti. L’operazione doveva ricevere il benestare dell’Antitrust inglese che non ha esitato a concederlo dopo che Microsoft ha garantito la cessione di alcune attività di Activision alla multinazionale francese Ubisoft Entertainment. Che cosa c’è di particolare in tutto ciò? Semplice, i principali azionisti di Microsoft sono i tre più grandi fondi finanziari mondiali, che sono lo sono anche di Activision, con percentuali intorno al 20%, ma, paradossalmente, sono presenti anche in Ubisoft. In barba al “libero” mercato.

Vale la pena aggiungere che la giapponese Nintendo, concorrente di Microsoft, è a sua volta posseduta da grandi fondi finanziari, con la compresenza di alcune banche nipponiche e del Fondo sovrano dell’Arabia Saudita. È evidente che a fare i prezzi non è certo la concorrenza e le regole sono scritte da una ristretta cerchia di soggetti finanziari contro i quali non esiste alcuna opposizione.

Il secondo esempio ha a che fare con il mondo degli idrocarburi. ExxonMobil compra per 65 miliardi di dollari un suo ipotetico concorrente, Pioneer natural resources, rafforzando così il monopolio nel settore dei combustibili fossili. L’inflazione renderà quest’acquisizione un affare. L’aspetto di rilievo però è costituito dal fatto che i principali azionisti di ExxonMobil sono Vanguard, BlackRock e State Street, che ne possiedono quasi il 20%. Per puro caso gli stessi fondi possiedono anche il 20% di Pioneer natural resources.

In sintesi, l’inflazione generata dalle scommesse finanziarie tiene altissimi i prezzi dei combustibili fossili che garantiscono dividendi formidabili ai super monopolisti. In questo clima, Jamie Dimon, l’amministratore delegato di JP Morgan, la più grande banca del mondo, i cui principali azionisti sono i grandi fondi finanziari, si è sentito in dovere di fare dell’astrologia.

Ha presentato i risultati del terzo trimestre del 2023 che hanno registrato profitti netti per 13,5 miliardi di dollari, tradotti in lauti dividendi per gli azionisti: la crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno passato è stata del 35%, in gran parte dovuta agli alti tassi di interesse della Federal Reserve. Dunque, una cuccagna. Tuttavia, il pensoso Dimon ha accompagnato i dati con la fosca previsione che stiamo per vivere il “periodo più pericoloso da decenni per il mondo”. Viene da pensare che una simile dichiarazione intenda creare nuove paure che spingano gli speculatori a scommettere su un ulteriore rialzo dei prezzi dei beni indispensabili, energia e alimentari in primis, destinati a diventare rari proprio per i pericoli del momento. Per essere più chiari: di fronte alle tensioni internazionali, le scommesse sul rialzo dei prezzi sono già state messe in moto dai grandi fondi e hanno bisogno di un ascoltato testimonial che, mentre registra profitti stellari, grida al lupo, sapendo bene, però, chi è il lupo.

Nel nostro piccolo focolare italico, intanto, Tim, proprietaria della rete di telecomunicazioni italiana, e Sparkle, che possiede i cavi sottomarini, sono in vendita. Dunque, mi sentirei di dire, sono in vendita due infrastrutture fondamentali per la sovranità -termine che in genere mi provoca qualche brivido, ma che qui non saprei come sostituire con un sinonimo- e persino per la piena libertà di un Paese, visto che di lì passano praticamente moltissimi dei servizi e dei contenuti di interesse generale. L’acquirente è un grande fondo, Kkr, che già possiede un pezzo della rete tramite FiberCop.

Questo fondo, che ha una storia di scalate, assalti finanziari e altre amenità non proprio edificanti, dispone di attivi per 460 miliardi di dollari; vuol dire che deve garantire a chi gli ha dato i soldi lauti rendimenti. Tra coloro che gli hanno fornito i finanziamenti ci sono i grandi fondi finanziari che, peraltro, sono anche azionisti di Kkr.

È possibile aggiungere una nota: Kkr compra di tutto in giro per il mondo, costruisce monopoli e poi, magari, li rivende a prezzi altissimi proprio perché sono diventati monopoli. Ora, mi domando, ma tutti, ma proprio tutti, hanno capito che l’Italia sta consegnando, per una ventina di miliardi di euro, le proprie infrastrutture strategiche -un pezzo di sovranità e libertà- a questo soggetto? Temo di no, ma intanto il governo pensa bene di assecondare l’operazione partecipando alla “cordata” guidata da Kkr con un contributo di minoranza, sperando poi di fare la voce grossa. Forse, dovremmo davvero smetterla di dare per scontato tutto questo e provare a restituire alla dimensione pubblica la sua natura di garanzia democratica. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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