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Finanza / Opinioni

L’economia americana ha fondamentali deboli ed è appesa alla “grande finanza”

© NASA - Unsplash

La posizione finanziaria netta degli Stati Uniti è negativa per circa 20mila miliardi di dollari alla fine del 2023. E il debito federale cresce ormai di mille miliardi ogni cento giorni. L’aumento dell’inflazione e la conflittualità internazionale premiano i fondi speculativi, rafforzandone lo strapotere. L’analisi di Alessandro Volpi

La narrazione ricorrente racconta che l’economia statunitense è in buone condizioni. Forse, rispetto a una simile affermazione, andrebbero tenuti presenti due aspetti che servono a capire meglio anche la strategia “militare” americana. Il primo è costituto da una posizione finanziaria netta negativa pari a circa 20mila miliardi di dollari alla fine del 2023. Significa che gli Stati Uniti hanno molti più debiti verso l’estero rispetto ai crediti che vantano.

Il secondo dato negativo è un debito federale che cresce ormai di mille miliardi di dollari ogni cento giorni. In sintesi, se gli Usa fossero un’azienda sarebbero in condizioni davvero critiche. Ma gli Stati Uniti non lo sono e possono usare la capacità di persuasione militare per migliorare il loro stato di salute. Come? Certamente creando aspettative di grande tensione e di grande conflittualità internazionale che, date in pasto alla finanza, diventano la benzina per una nuova ondata inflazionistica.

Minacciare la guerra in maniera costante significa scatenare un’inflazione che permette di abbattere il debito e rendere sostenibile ciò che allo stato attuale, per gli Stati Uniti, è molto pesante. Del resto, una ripresa dell’inflazione determinerebbe il mantenimento di tassi alti a opera della Federal reserve e della Banca centrale europea (Bce), rendendo la liquidità dei grandi fondi l’unica realmente disponibile e una simile condizione favorirebbe la corsa delle Borse americane, che vivono di aspettative create e sostenute proprio dai grandi fondi.

Le Borse, infatti, non sono scalfite dalle tensioni geopolitiche, anzi. Pur in presenza di una situazione di grave crisi, la finanza macina record; è la dimostrazione di due dati di fondo. Il primo. I valori finanziari prescindono, in larga misura, dalle condizioni dell’economia reale e, di fatto, si autogenerano puntando sulla formazione di costanti bolle speculative: dopo quella bancaria, legata agli alti tassi, e a quella energetica, dettata dall’inflazione, stiamo per assistere alla bolla indotta da tutto ciò che ha a che fare con l’ipotesi di un conflitto. Quindi si ha l’impennata di titoli “militari” e tecnologici.

Il secondo dato si lega alla certezza che ormai i valori finanziari sono “governati”, come accennato, da un monopolio di pochissimi grandi fondi, in grado di evitare significativi tracolli. Si è fatta strada l’idea, pericolosissima, che il rischio sia sparito, persino di fronte alle guerre, perché esiste una gestione monopolistica, appunto, della finanza. Si tratta di un concetto molto insidioso dal momento che i “gestori del rischio”, i grandi fondi, potrebbero decidere di tesaurizzare gli enormi record raggiunti, rovinando tutti quei soggetti che ormai hanno affidato alla finanza le proprie polizze sanitarie e previdenziali.

Certo, il potere monopolistico dei fondi trova costanti conferme. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, si è dichiarato fermamente contrario all’acquisizione da parte della giapponese Nippon steel del colosso siderurgico United States steel. Ha sostenuto che sarebbe molto più opportuna la fusione di quest’ultimo con Cleveland cliffs, l’altra grande società dell’acciaio con sede in Ohio. Nazionalismo? Fino a un certo punto. Forse c’è dell’altro. Entrambe le aziende hanno come principali azionisti i tre grandi fondi finanziari -BlackRock, Vanguard e State Street- i veri “Big three”, che da una simile fusione trarrebbero il beneficio, prima di tutto finanziario, della creazione di una condizione di monopolio di un settore decisamente strategico.

Ma la prova della forza dei fondi si materializza anche quando la politica tenta di opporsi al loro strapotere. Il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e i procuratori generali di 17 Stati hanno avviato una procedura antitrust contro Apple per violazione della concorrenza. L’effetto è stata una perdita del titolo Apple del 3,7%. Dunque tutta la potenza di fuoco di una parte rilevante dell’amministrazione statunitense ha generato una scivolata molto contenuta di un titolo, quello di Apple, che negli ultimi sei mesi è volato. In pratica, è partita qualche vendita allo scoperto, di natura speculativa, da parte dei grandi fondi in primis che, però, essendo gli azionisti di Apple, si sono preoccupati di non minacciare in alcun modo il valore della società di Cupertino. Per essere ancora più chiari, i fondi hanno colto l’occasione per fare una speculazione di piccola portata, mantenendo ben salda la corsa finanziaria di Apple, peraltro in una giornata dove l’indice di Wall Street ha continuato a macinare record. Un’operazione cucinata in casa approfittando della politica, e dalla sua evidente debolezza: “gli Stati Uniti contro Apple” è stato il pomposo titolo di molti giornali che forse non colgono sia l’inefficacia dell’azione politica sia la gestione, appunto, speculativa dell’affaire. L’economia americana ha, in questo momento, fondamentali deboli e ha bisogno vitale della grande finanza che certo, a differenza dell’economia reale, non teme affatto l’inflazione, vera panacea per il debito statunitense e per il monopolio dei superfondi.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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