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Diritti / Opinioni

Quella italiana non è un’accademia per donne

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La disparità di genere segna il mondo della ricerca: rispetto agli uomini, le studentesse ottengono risultati migliori ma restano precarie più a lungo. La rubrica a cura dell’Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale (OCIS)

Tratto da Altreconomia 250 — Luglio/Agosto 2022

La disparità di genere nella ricerca e nell’università è un fenomeno globale. Nel contesto italiano, per esempio, le studentesse si laureano (e conseguono il dottorato di ricerca) di più e ottengono risultati mediamente migliori rispetto ai loro colleghi maschi, ma la situazione cambia dopo la fine del dottorato, fino a capovolgersi negli stadi successivi della carriera accademica.

Due sono le metafore attraverso le quali si rappresentano questi fenomeni. La prima è quella del “tubo che perde” per indicare il processo per cui le donne faticano più dei loro colleghi maschi ad accedere a posizioni non precarie. La seconda è quella del “soffitto di cristallo” per descrivere quella barriera invisibile che rende più difficile per le donne raggiungere gli stadi più alti della carriera (diventare professore/ssa ordinario/a) e in generale scalare le posizioni apicali. Le riforme del sistema universitario italiano negli ultimi decenni -sulla scia della svolta neo-liberista che ha messo al centro la performance, la competizione, la produttività- hanno generato pressioni crescenti a pubblicare (publish or perish).

In questo contesto, un progetto di ricerca finanziato dal ministero dell’Istruzione, dal titolo GeA (Gendering academia) ha cercato di comprendere se e in che modo le disparità di genere vengono prodotte e (ri)prodotte nei vari stadi della carriera universitaria in Italia. A partire dalle interviste condotte con ricercatori e ricercatrici, professori e testimoni privilegiati, lo studio mostra l’importanza di fattori da ricondurre a processi che operano a diversi livelli. Dallo studio emerge come primo elemento di cambiamento l’intensificazione dei tempi e dei ritmi di lavoro.

Il 57% delle persone laureate nel 2019 in Italia sono donne. Ma le professoresse ordinarie sul totale sono solo il 25%

Fare ricerca è sempre più spesso una “vocazione”, ma entro una cultura di “devozione totale” al lavoro, sostenuta da un modello di lavoratore “incondizionato” (senza responsabilità di cura e senza altri impegni oltre a quelli accademici). L’accelerazione dei tempi di lavoro è in gran parte dovuta alla richiesta di maggiore produttività (scientifica), “è una tragedia” dice Anita, una ricercatrice precaria di 34 anni, “uno lavora continuamente, non, non ci sono orari… non ci sono weekend non… […] tu sai che devi produrre, devi produrre, quindi cerchi sempre di produrre”. Sul fronte dei percorsi lavorativi, le donne, sia all’inizio sia nelle fasi più avanzate della carriera, presentano percorsi più lenti e meno lineari. Inoltre quelle in accademia, “percepiscono” più spesso dei loro colleghi maschi di non essere state sostenute nel loro percorso professionale e di ricerca (da un o una mentore) e manifestano più spesso l’ostilità verso le posizioni apicali.

Sono all’opera anche alcuni meccanismi di autoselezione da parte delle donne stesse: “Penso che siamo ancora noi in alcuni aspetti la barriera di noi stesse”, dice Pia, 48 anni, professoressa associata. Sul fronte conciliazione famiglia e lavoro, ancora una volta, le penalizzazioni legate alla maternità, strategie di rinvio o la rinuncia alla maternità e paternità, per non compromettere la carriera, rappresentano le ordinarie storie di vita delle ricercatrici e dei ricercatori dell’università italiana. La pandemia, d’altro canto, con la chiusura di scuole e servizi per l’infanzia, ha contribuito ad esacerbare le diseguaglianze di genere preesistenti. Nonostante la crescente attenzione dedicata al tema dei divari di genere nella ricerca e nell’università a livello di Unione europea e più recentemente anche in Italia, molti restano gli ostacoli da superare e le sfide da affrontare per ridurre le disuguaglianze di genere nell’accademia italiana.

Manuela Naldini insegna Sociologia della famiglia presso l’Università degli Studi di Torino

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