Crisi climatica / Approfondimento
“Perché abbiamo promosso ‘La giusta causa’ civile contro Eni”
Dodici cittadini, insieme a Greenpeace e ReCommon, hanno intentato la prima climate litigation italiana contro il colosso. Chiedono che l’azienda sia obbligata a rivedere la propria strategia industriale e a ridurre le emissioni
Italia ha finalmente la sua prima climate litigation nei confronti di un privato: ovvero un’azione legale contro un’azienda responsabile dei danni provocati dalla crisi climatica. L’hanno intentata 12 cittadini e cittadine, Greenpeace Italia e ReCommon nei confronti di Eni, la super-potenza fossile del nostro Paese. Una società per circa il 30% ancora in mano allo Stato, segnatamente il ministero dell’Economia e la Cassa depositi e prestiti, per questo anch’essi citati in giudizio.
Nel mondo si contano oltre duemila climate litigation, la più nota è quella mossa da alcune organizzazioni e 17.379 singoli co-ricorrenti contro Shell in Olanda, che nel maggio 2021 ha indotto un tribunale dei Paesi Bassi a stabilire che la corporation è corresponsabile degli stravolgimenti climatici in atto, intimandole quindi di ridurre le proprie emissioni di carbonio. La causa italiana si basa sulla motivazione che l’attuale strategia di decarbonizzazione di Eni sia palesemente in violazione degli impegni presi in sede internazionale dal governo italiano e dalla stessa società.
Ma che cosa chiedono quelli che, nel lessico forense, vengono definiti attori? In concreto, che il Tribunale di Roma accerti il danno e la violazione dei loro diritti umani alla vita, alla salute e a una vita familiare indisturbata. Inoltre che la società venga obbligata a rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020. Target fissato dalla comunità scientifica internazionale per contenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi, secondo quanto previsto dall’Accordo di Parigi sul clima del dicembre 2015. Ovviamente una “condotta virtuosa” in termini di sostenibilità climatica viene anche richiesta al ministero dell’Economia (come detto azionista di peso della società) e al suo braccio finanziario Cassa depositi e prestiti così da guidare la loro partecipazione nella società in linea con l’Accordo di Parigi.
Eni sarebbe stata ben cosciente degli effetti nefasti per il clima legati alle sue attività già nel 1970, quando commissionò uno studio che metteva in guardia sui rischi “catastrofici” che l’aumento dell’anidride carbonica avrebbe potuto comportare per il Pianeta, come riportato da Stella Levantesi, giornalista di DeSmog in un articolo pubblicato sul Guardian il 9 maggio scorso, lo stesso giorno del lancio della climate litigation italiana.
Sempre nel medesimo articolo si menzionano ulteriori ricerche di DeSmog, che rivelano come Echi, la rivista di Eni, abbia ripetutamente menzionato il cambiamento climatico tra la fine degli anni Ottanta e il 1990, pubblicizzando contemporaneamente i combustibili fossili come fonti di energia “pulita”.
L’azienda guidata da Claudio Descalzi si è trincerata dietro una dichiarazione ufficiale che così recita: la società “dimostrerà in tribunale l’infondatezza dell’azione messa in campo e, per quanto necessario, la correttezza del proprio operato e della propria strategia di trasformazione e decarbonizzazione, che mette insieme e bilancia gli obiettivi imprescindibili della sostenibilità, della sicurezza energetica e della competitività del Paese”. Una dichiarazione condita da un attacco diretto a ReCommon nella sua parte finale, perché l’azienda “si riserva a sua volta di valutare le opportune azioni legali per tutelare la propria reputazione rispetto alle ripetute azioni diffamatorie messe in campo da ReCommon, a partire dal ruolo che l’associazione ha cercato di ritagliarsi nell’ambito della vicenda giudiziaria Opl245”.
A proposito della strategia di trasformazione e decarbonizzazione di Eni, di recente sono stati pubblicati alcuni rapporti internazionali che sembrano smentire clamorosamente quanto sostenuto dalla società.
L’Ong francese Reclaim finance segnala che, nel 2021, l’azienda italiana si è classificata al diciannovesimo posto tra i produttori globali di petrolio e gas e al ventesimo posto come sviluppatore del settore upstream del comparto a livello globale. Eni prevede inoltre di aumentare la propria produzione di idrocarburi a 1,9 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno (composta per il 40% da petrolio e per il 60% da gas) e di mantenerla al livello di plateau fino al 2030. Se raggiungerà questo obiettivo, la sua produzione sarà superiore del 70% al livello richiesto per allinearsi agli scenari di riduzione delle emissioni Net zero emission (Nze) fissati dall’Agenzia internazionale dell’energia (Iea).
Eni, continua Reclaim finance, non si è impegnata a interrompere lo sviluppo di nuovi progetti petroliferi e di gas oltre a quelli già in fase di sviluppo. Inoltre possiede 3.880 milioni di barili di petrolio equivalenti di risorse di idrocarburi scoperte, che non sono ancora entrate nella fase di valutazione o sviluppo.
Per l’esplorazione di nuovi campi petroliferi e di gas, dal 2020 al 2022 l’azienda ha speso in media 787 milioni di dollari all’anno, il che la rende il diciassettesimo maggiore investitore al mondo in questo ambito. Il 10 maggio, proprio nel giorno in cui l’assemblea degli azionisti ha confermato per la quarta volta consecutiva Descalzi amministratore delegato della società, l’organizzazione statunitense Oil change international ha rincarato la dose, dimostrando, dati alla mano, come Eni sia la terza “espansionista” di petrolio e gas al mondo: nel 2023 solo la qatarina QatarEnergy e la la brasiliana Petrobras sopravanzano l’azienda italiana per volume di nuove riserve di petrolio e gas approvate per lo sviluppo. Inoltre Oil change calcola che entro il 2026 l’aumento di estrazione dei due combustibili fossili da parte di Eni avrà un’impennata del 3-4% l’anno. Non proprio un’azione virtuosa nell’ottica della lotta ai cambiamenti climatici.
Per l’esplorazione di nuovi campi petroliferi e di gas, dal 2020 al 2022 l’azienda ha speso in media 787 milioni di dollari all’anno, il che la rende il diciassettesimo maggiore investitore al mondo in questo ambito.
Se da un lato Eni presenta il suo modello di business come funzionale alla transizione energetica, dall’altro l’azienda continua a dare priorità agli investimenti nel comparto oil&gas, alimentando ulteriormente la crisi climatica. Nel 2022, Eni ha investito 15 volte di più nei segmenti di business dominati dai combustibili fossili rispetto a Plenitude, che integra la produzione di energia rinnovabile. E non intende aumentare gli investimenti in questo settore quanto necessario: dal 2023 al 2026, prevede infatti una spesa in conto capitale di poco superiore ai nove miliardi di euro all’anno e investirà da sei a 6,5 miliardi di euro all’anno nelle sue attività upstream (di cui 2,1 miliardi di euro nell’esplorazione) mentre solo 1,65 miliardi di euro all’anno saranno dedicati alle rinnovabili, ossia meno del 20% degli investimenti previsti. Con importi così modesti, nel 2030, la quota massima di rinnovabili sostenibili nel mix di approvvigionamento energetico di Eni rimarrebbe al di sotto del 7%. Anche per questa ragione 12 cittadine e cittadini, Greenpeace Italia e ReCommon credono che quella intentata nei confronti di Eni sia quindi #LaGiustaCausa.
Lo spazio “Fossil free” è curato dalla Ong ReCommon recommon.org. Un appuntamento ulteriore -oltre alle news su altreconomia.it– per approfondire i temi della mancata transizione ecologica e degli interessi in gioco
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