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“Non sarà un decreto a fermare le ‘baby gang’. Serve ascolto”

Sasha Freemind - Unsplash

Roberta Lippi, autrice di un podcast prodotto da Publispei e Storielibere che approfondisce il fenomeno della delinquenza minorile, spiega perché le nuove misure del Governo Meloni adottate a inizio settembre non porteranno ai risultati sperati. Ne sono consapevoli anche i famigliari delle vittime

“Così lo Stato rischia di fare la stessa fine del genitore che quando ‘sgrida’ il figlio riceve un dito medio in tutta risposta”, sospira Roberta Lippi, giornalista e autrice che conosce bene il mondo della devianza giovanile. Con il suo “Baby gang”, un podcast pubblicato a maggio 2023 da Publispei e Storielibere, ricostruisce in sei puntate la complessità della criminalità di strada perpetrata da giovanissimi in cerca di riscatto.

Lo fa ascoltando i punti di vista di tutti gli attori coinvolti: le vittime, i loro famigliari, gli operatori di comunità che affiancano i giovani autori di reato, le forze dell’ordine, psicologi ed esperti. Ed è forse proprio questo sguardo a 360 gradi, che emerge chiaramente dall’ascolto del podcast, a far scalpitare la giornalista a una richiesta di commento sul decreto varato dal Consiglio dei ministri il 7 settembre. Un decreto “anti baby gang” che inasprisce le sanzioni: dal Daspo urbano al foglio di via, passando per l’aumento del ricorso alla custodia cautelare, le multe per i genitori “disattenti”, il divieto di avere un telefonino se questo è stato utilizzato per commettere un reato.

Roberta, dalla conoscenza che ti sei fatta del mondo della devianza giovanile, quelle approvate dal governo sono misure efficaci?
RL No, non possono esserlo. È un tema delicato e per decidere quale decreto varare bisognerebbe allontanare lo sguardo dalle vicende dolorose che abbiamo visto succedere nelle ultime settimane per capire veramente quale misura possa essere efficace. Certo è che l’approccio dello Stato rischia di essere lo stesso di quel genitore che i ragazzi non ascoltano.

Cioè?
RL Se l’adulto è credibile e rispettato, il figlio che viene messo in punizione ascolta ed elabora con il tempo quella “sgridata” come utile per il suo percorso. Al contrario, se il genitore non ha nessuna autorevolezza il ragazzo alza il dito medio ed esce dalla finestra. Il rischio di misure simili a quelle adottate ieri è esattamente lo stesso e l’esito già scontato. Non porteranno a nessun risultato efficace. Lo racconta bene Aladin nell’ultima puntata del podcast. Ventenne, ex membro di una baby gang con alle spalle 24 capi d’accusa, dice quanto sia stato ininfluente quella giornata trascorsa in questura dove è stato “ammonito” per i suoi comportamenti e avvisato del fatto che al prossimo reato sarebbe finito in carcere. Nell’Ipm (Istituto penale per i minorenni, ndr), poi, ci è finito lo stesso.

E dunque che cosa è necessario fare?
RL Assumersi la responsabilità di quello che fanno questi ragazzi. Non è un controsenso. Chi non era consapevole che dopo due anni di reclusione in casa a causa della pandemia i ragazzi di 12, 13 anni avrebbero vissuto un forte disagio? Che futuro stiamo offrendo loro in termini di lavoro, prospettive economiche piuttosto che ambientali? Che aiuto offriamo nelle scuole? Come supportiamo i genitori? Dopo la pandemia ci sono state tante promesse ma pochi fatti. E così gli insegnanti sono sempre più soli, gli psicologi nelle classi sono pochissimi, gli operatori delle comunità in cui vengono inseriti i minorenni sempre più precari e senza una formazione adeguata. Paghiamo queste mancanze, intervenire sul reato commesso non può essere abbastanza, anche se è comodo.

Perché?
RL Perché ci deresponsabilizza e ci fa stare tranquilli: l’idea è sempre la stessa, li chiudiamo più tempo in una struttura e il problema si risolve. E tra l’altro, continuiamo a raccontarci la favoletta che ai minorenni che commettono un reato non succede niente. Ma non è così. Il problema poi è sempre lo stesso però: se entrano negli Ipm e poi escono tali e quali a quelli che erano quando sono entrati abbiamo fallito due volte. Perché già l’ingresso in un carcere di un giovane racconta un fallimento, se per di più poi non siamo efficaci nel proporre un’alternativa allora cade il castello. E attenzione: questo lo dicono anche i famigliari delle vittime.

Il podcast di Roberta Lippi, autrice e scrittrice già nota per le serie d’inchiesta “Love Bombing” e “Soli” , indaga il fenomeno, spaventoso e dilagante, delle cosiddette “baby gang” italiane, raccontandolo da differenti punti di vista: quello delle vittime e dei loro familiari, ma anche degli operatori che cercano di recuperare questi giovani criminali, delle forze dell’ordine e degli psicologi che si occupano specificamente del problema

Che cosa intendi?
RL Quello che mi ha stupito di più registrando il podcast è stato proprio il fatto che coloro che avevano visto il proprio figlio rischiare di morire per colpa di questi gruppi, giovani obbligati a cambiare casa, persone minacciate di violenza sessuale non volevano vendetta. Volevano capire il perché di questa violenza e soprattutto strumenti adeguati per raggiungere un unico obiettivo: far sì che quell’orrore non si ripetesse. E per farlo devi anche essere capace di ascoltarli. Penso alla norma inserita che prevede di requisire il telefonino per chi commette reati. È esattamente l’approccio opposto.

Aiutaci a capire meglio.
RL Per quei ragazzi quello strumento, nel bene e nel male, è l’unica strada che hanno per comunicare all’esterno. E pensare che togliendolo si risolvano i problemi è il classico approccio di chi, magari con 50 o 60 anni, legge la realtà con i suoi occhi, non calandosi in quello che invece è il quotidiano dei giovani. E questo è deleterio.

Nel podcast racconti come il fenomeno della devianza minorile tocchi anche “insospettabili”.
RL Sì. Un tempo ci tranquillizzava pensare che erano gang soprattutto di stranieri, di varie nazionalità che si scontravano tra loro oppure quelle legate alla criminalità organizzata, con minorenni sfruttati per essere passaparola, corrieri, spacciatori. Ora possiamo dire che l’unico tratto in comune che hanno questi ragazzi è la fascia d’età. Per il resto, me l’hanno confermato anche le forze dell’ordine, sono sia donne sia uomini, di tutte le estrazioni sociali, compresi i figli dell’alta borghesia. Poi ovviamente rimangono i ragazzi che vivono il disagio più forte. Ma è molto più vicino a tutti noi di quanto si possa pensare.

E come incide il “branco” sul comportamento dei singoli?
RL È fondamentale. La potenza del gruppo protegge, non fa sentire la paura, non ti fa prendere le tue responsabilità. Tu sei il gruppo, in cui spesso ti rifugi perché è l’unico luogo in cui ti senti capito, in cui trovi le risposte che altri non sanno darti. In una puntata intervisto un educatore della comunità Kayros che a Milano accoglie proprio i giovani minorenni. Lui racconta che per lavorare bene bisogna intervenire sul singolo: solo lui può trascinare gli altri una volta tornato nel gruppo. E per farlo bisogna sempre dare loro una visione del futuro appetibile. E non di certo multare i genitori: un’altra norma che è insignificante. Basterebbe vivere una settimana in un quartiere periferico d’Italia per capire che se un ragazzo decide di non andare a scuola si riesce a fare bene poco.

E come se ne esce?
RL Creando delle risposte di rete: la scuola, le istituzioni, i genitori. Investendo sulla prevenzione anche sul tema delle sostanze: sono ragazzi “ribelli”, sì, ma spesso quello che fanno deriva anche da abuso di alcol e sostanze stupefacenti. Oltre che sull’educazione sessuale: non serve limitare l’accesso alla pornografia, serve aiutare i ragazzi a capire che quello che vedono sullo schermo non è un bignami ma anzi spesso mostra proprio l’approccio che non deve esserci durante un rapporto. Queste sono le urgenze, non l’aumento della custodia cautelare.

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