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La riscoperta della dimensione internazionale della Resistenza. Per renderla ancora più attuale

I festeggiamenti per la liberazione di Torino il 6 maggio 1945 © Giorgio Agosti - Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea "Giorgio Agosti"

Nella “Storia internazionale della Resistenza italiana” gli storici Chiara Colombini e Carlo Greppi documentano il contributo dei combattenti stranieri alla Liberazione, come quello degli ex prigionieri di guerra o delle vittime della colonizzazione italiana. Tema trascurato per anni, la partecipazione straniera alla Resistenza testimonia il carattere internazionale dell’antifascismo

Meticcia e transnazionale, locale e globale: “la Resistenza è stata tutte queste declinazioni al contempo”. Lo scrivono gli storici Chiara Colombini e Carlo Greppi che in vista dell’ottantesimo anniversario della Liberazione hanno curato il volume “Storia internazionale della Resistenza italiana” (Laterza, 2024).

Dai prigionieri di guerra sovietici agli ex nemici Alleati, passando per i “partigiani di origine coloniale” provenienti dai possedimenti italiani nel continente africano o ancora i disertori del Reich tedesco, furono migliaia, infatti, gli stranieri che si unirono alle brigate partigiane, dando il proprio contributo alla Liberazione dell’Italia e dell’intero continente.

Una partecipazione non solo ideale ma concreta e utile: secondo le stime degli autori, infatti, presero parte alla Resistenza in Italia tra i 15mila e i 20mila combattenti di origine straniera, formando quasi un decimo degli effettivi partigiani. “Gli stranieri punteggiano fittamente il contesto in cui nasce e cresce la Resistenza in Italia. Li si trova ovunque”, scrivono gli autori nelle pagine introduttive al volume che indaga le loro vicende nel biennio compreso tra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la fine delle ostilità, nella primavera del 1945. Li abbiamo intervistati. 

Ne “Il Buon tedesco”, pubblicato da Laterza nel 2021, Carlo Greppi racconta la storia del capitano Jacobs, ufficiale tedesco che nel 1944 decide di passare tra le fila dei resistenti in Liguria. A distanza di pochi anni, per quale motivo ha ampliato lo sguardo alla partecipazione complessiva dei partigiani stranieri nella Resistenza italiana?
CG Sicuramente ha influito moltissimo il clima storiografico degli ultimi anni che ha visto una grande vivacità intorno a questo tema. Con Chiara Colombini abbiamo voluto sistematizzare gli studi usciti finora e abbiamo raccolto alcuni contributi capaci di fare il punto su questa pista di ricerca della Resistenza, cercando di innovare lo sguardo d’insieme sul fenomeno. 

Il vostro libro si inserisce per l’appunto nella recente scia di studi sul carattere internazionale della Resistenza italiana. “La partecipazione straniera alla guerra partigiana non è il primo dei problemi, nel peggiore essa diventa motivo di imbarazzo o di diffidenza”, scrivete nel volume alludendo, invece, agli anni successivi alla fine del conflitto. Come vi spiegate queste due fasi dell’interesse storiografico?
CC Nonostante su questo tema non siano mai state fatte finora delle vere e proprie sintesi, la partecipazione degli stranieri alla Resistenza non è mai stata davvero dimenticata nel dibattito pubblico e nelle ricerche storiografiche, soprattutto a livello locale. È indubbio, però, che nel secondo Dopoguerra, con il clima della Guerra Fredda, si sia voluto accentuare una visione patriottica della Resistenza: per questo, per molti anni, valorizzare la presenza di partigiani stranieri e raccontarne le storie non è stata una priorità.  

Come mai si è assistito a una nuova ondata di interesse, invece, a partire dagli anni 2000?
CC Il primo motivo è semplicemente il fatto che gli studi continuano ad andare avanti e ad approfondire aspetti rimasti finora marginali. In secondo luogo, le domande del presente contano nel riproporre gli studi e nel farli andare anche in direzioni differenti rispetto a quanto si è fatto in precedenza: in questo senso il riproporsi anche aggressivo del concetto di nazione nel dibattito pubblico è stato una leva per approfondire la dimensione internazionale della Resistenza. 

Tornando al vostro libro, la maggior parte degli stranieri impegnati nella Resistenza italiana erano ex prigionieri o disertori. Quali motivi li spinsero a cambiare campo e a combattere con i resistenti?
CG Non ci sono grosse differenze rispetto a quelli dei partigiani italiani. Si andava da chi aveva una convinzione politico-ideologica più granitica a chi vi aderì per pura contingenza e casualità: ricordiamoci che i partigiani stranieri così come la gran parte dei loro compagni di lotta italiani erano ragazzi o giovani uomini tra i 18 e i 30 anni con percorsi assolutamente eterogenei.  

CC In più c’era sempre da superare un muro di diffidenza reciproca motivato da anni su fronti opposti. Ma nonostante questi problemi iniziali di comprensione e di amalgama, la convivenza negli anni tra ex nemici nelle formazioni partigiane è stata fruttuosa. È la conferma di un aspetto che emerge nel corso del volume: i nazifascisti avevano eretto un sistema talmente ripugnante e invivibile da riuscire a coalizzare contro di sé uno spettro di forze veramente vastissimo.  

Gli storici Carlo Greppi e Chiara Colombini

Un caso diverso è descritto da Valeria Deplano e Matteo Petracci nel loro saggio sui partigiani provenienti dalle colonie africane dell’Italia di allora: ci potete spiegare meglio?
CG Le decine di combattenti partigiani afrodiscendenti sono sicuramente una piccola minoranza ma la loro storia è una novità strabiliante nel campo della ricerca storica: parliamo, infatti, di persone che non sono chiamate alle armi e che, nel momento in cui decidono di combattere con la Resistenza, compiono una scelta dettata sì dalla contingenza di trovarsi sul suolo italiano ma del tutto volontaria e disinteressata. Il caso della “banda Mario” è particolarmente esemplare perché parliamo di colonizzati, cioè di persone che hanno subito l’occupazione dell’Italia fascista nel loro Paese di origine e che erano state portate in Italia per una grande mostra, appunto, sulle colonie a Napoli nel 1940. Rimasti bloccati sulla Penisola, scelgono la lotta armata contro i fascisti a costo di stare a fianco di altri connazionali dei loro colonizzatori. L’altra vicenda da citare è quella del partigiano italo-somalo Giorgio Marincola, papà italiano e mamma somala, che arriva a vivere in Italia e sceglie di combattere nella Resistenza, spostandosi verso Nord dopo l’8 settembre. Muore il 4 maggio del 1945: è uno degli ultimi caduti della guerra in Italia. 

Nel libro scrivete che “il conflitto che deflagra sul suolo della Penisola nel settembre del 1943 non è che la declinazione locale di una guerra generalizzata lunga oltre un decennio, quella innescata dai fascismi”. Era un conflitto anche ideologico quello che era in atto in quella fase storica?
CC Certamente. Come ha saputo spiegare con grande chiarezza Claudio Pavone, la Resistenza è stata un intreccio di più guerre con varie motivazioni e con categorie diverse di nemici prevalenti. L’idea di fondo, comune a tutti, era però quella di costruire una società in grado di sradicare completamente il fascismo per un’idea di umanità e di società incompatibile con quanto visto nel Ventennio.  

In quest’ottica, nell’ottantesimo anniversario della Liberazione, assume senso anche mettere l’accento sulla partecipazione degli stranieri alle formazioni partigiane. Che cosa significa oggi riscoprire questa dimensione internazionale, a lungo trascurata, della Resistenza in Italia?
CG Significa rendersi conto che quella breve ma significativa esperienza di lotta lunga venti mesi covava in sé già il mondo del futuro: plurale, di scambi e di mille colori. E questo permette a chiunque, indipendentemente dalla propria origine, di riconoscervisi, percependola come una “cosa di famiglia”: attraverso la riscoperta della sua dimensione internazionale, il racconto della Resistenza può così diventare ancora più attuale. Per tutti. 

CC Mettere in luce la partecipazione degli stranieri alla Resistenza in Italia ne mostra un’ulteriore, importante, faccia. Considerare la molteplicità di persone, di motivazioni e di luoghi d’origine fa comprendere a pieno quanto sia stato invivibile ed ingiusto il modello proposto dal nazifascismo. A tal punto da coalizzare contro di sé un mosaico umano così ampio. 

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