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I giovani abbandonati dentro il carcere. Il caso di scuola di Torino

© Ye Jinghan, unsplash

Una ricerca dell’Ufficio del Garante comunale in collaborazione con l’Università ricostruisce il contesto di solitudine e abbandono dei reclusi. Due su tre non incontrano un educatore, il 44% non partecipa ad attività all’interno dell’istituto. Uno spaccato su “una popolazione giovanile di cui non si occupa nessuno”

L’evasione di gruppo del pomeriggio di Natale dal carcere minorile Beccaria di Milano ha acceso i riflettori sulla difficile condizione detentiva dei più giovani. Sette ragazzi sono poi rientrati in istituto in breve tempo, volontariamente o rintracciati in maggioranza da amici e famigliari. “Quell’episodio ripropone in maniera plastica i ritardi non solo di natura organizzativa e operativa, ma di visione e impostazione dell’esecuzione della pena, soprattutto nei confronti della fascia più giovane della popolazione detenuta”, spiega Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti dei detenuti di Torino che a fine dicembre 2022 ha pubblicato con Cecilia Blengino, professoressa di Sociologia del Diritto all’Università di Torino, un’indagine dal titolo “Giovani dentro e fuori”, che ricostruisce, dati alla mano, la condizione di solitudine e abbandono dei cosiddetti giovani-adulti all’interno di età compresa tra i 18 e i 24 anni. “Una condizione che si amplifica rispetto agli Istituti penali minorili -racconta-. Un ragazzo che oggi sconta la pena al Lorusso e Cutugno (il carcere del capoluogo piemontese, ndr) non puoi ‘recuperarlo’. Prosegue una strada che non è quella della legalità. Lo dicono i dati”.

L’aumento delle presenze di giovani adulti nella struttura torinese (134 al giugno 2022, il 9,8% del totale) ha spinto l’ufficio del garante a indagare di più la condizione dei reclusi. Così è nata “Giovani dentro e fuori” che ha visto la collaborazione tra gli studenti e le studentesse della clinica legale “Carcere e diritti” del Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Torino supervisionati dalla professoressa Cecilia Blengino. Le 149 interviste svolte in istituto tra gennaio e maggio 2022 ricostruiscono come più della metà dei giovani non svolge nessun colloquio all’interno dell’istituto, né con familiari, né con “terze persone”. “La rescissione dei rapporti con il mondo esterno si traduce  da un lato in una detenzione che trascorre nella solitudine, dall’altro in un probabile fallimento del proprio percorso di reinserimento sociale”.

Un fallimento reso ancor più probabile dalla bassa percentuale di chi incontra i funzionari giuridico-pedagogici: solo il 46% ha dichiarato di incontrare regolarmente il proprio educatore di riferimento (23%) o altre figure di supporto come psicologi o operatori del SerD (23%). Due giovani su tre non hanno quindi mai incontrato i componenti dell’area trattamentale. Non solo. Il 43% del totale -un dato che potrebbe essere più alto perché il 10% delle persone intervistate non ha risposto alla domanda- non partecipa ad alcun percorso formativo. “È sbalorditivo vedere come i giovani vengano trattati allo stesso identico modo degli adulti. Spesso condividono la cella con persone più grandi di loro, magari al quarto o quinto ingresso in istituto. La detenzione in questo modo diventa una ‘scuola’ per il crimine. Si accumula rabbia, fallimento e senso di solitudine”, osserva Gallo.

I dati confermano questa tendenza. Al Lorusso e Cutugno quasi il 45% dei giovani intervistati divide la camera di pernottamento con una persona di età superiore ai 30 anni. Questo nonostante l’ordinamento penitenziario stabilisca la separazione dei giovani al di sotto dei 25 anni dagli adulti.

I giovani raccontano poi di una prolungata permanenza all’interno della sezione “nuovi giunti”. Sono spazi detentivi destinati “all’accoglienza per i soggetti che hanno da poco fatto ingresso all’interno dell’istituto” per “mitigare l’impatto psicologico negativo che questo può avere su di loro”. Questo primo passaggio dovrebbe protrarsi per il tempo strettamente necessario allo svolgimento delle valutazioni da parte del personale dal punto di vista sanitario e psicologico che ha l’obiettivo di valutare il rischio suicidario della persona e accelerare la presa in carico da parte del personale dell’istituto.

Gli autori dell’indagine sottolineano come la vita penitenziaria in questi luoghi si svolge interamente all’interno delle camere di pernottamento che rimangono sempre chiuse, salvo due ore d’aria giornaliere. È in quei luoghi che il 28 ottobre 2022 si è impiccato un 36enne originario del Gambia: era stato arrestato due giorni prima per aver rubato un paio di cuffiette bluetooth. “Il passaggio prolungato nei ‘nuovi giunti’ concorre ad acuire i disagi e le fragilità tipiche di molti giovani reclusi che per circa due mesi dal loro ingresso in Istituto vengono inseriti in un ambiente che pare totalmente inidoneo alla salvaguardia della loro condizione psicofisica”, si legge nella ricerca. 

Torino è un “caso di scuola” perché come detto vede una presenza altissima di giovani detenuti. Considerando solamente i nati tra il 1998 e il 2004 ben l’8%, che supera l’istituto di Rebibbia di Roma (5%), Santa Maria Capua Vetere (4,4%) e Poggioreale a Napoli (6,7%). Un dato che chiama in causa anche l’attività della polizia e della Procura: il 70% degli intervistati vive a Torino e il 43% di loro proviene da Barriera di Milano, uno dei quartieri più fragili del capoluogo piemontese. Non a caso il questore di Torino Vincenzo Ciarambino, chiamato in causa da la Repubblica a seguito della pubblicazione, ha sottolineato, pur dichiarando di non aver dati aggiornati al 2022 sugli arresti e non potendo fare comparazioni statistiche, come “si è fatto un uso parsimonioso degli arresti, puntando su quelli ‘di qualità’, dei criminali di spessore, e su quelli educativi”. “Arresti educativi? -riflette Gallo-. Difficile pensarlo quando la situazione nell’istituto è questa”. 

I giovani che entrano in carcere sono in prevalenza stranieri (75%) provenienti dal Marocco (29%), Senegal (17%) e Nigeria (7%). Quasi nove su dieci al momento dell’arresto erano sprovvisti di un regolare permesso di soggiorno, più della metà ha dichiarato di aver fatto ingresso nel territorio italiano come minore straniero non accompagnato (Msna). Sul totale -stranieri e italiani- il 53% non ha precedenti penali e il 70% non è mai stato preso in carico dai servizi territoriali. Nella postfazione della ricerca, Franco Prina, già professore ordinario di Sociologia giuridica e della devianza dell’Università di Torino, sottolinea come il carcere “si rivela sempre più come approdo per chi non ha avuto sostegni adeguati in servizi e contesti solidali della comunità locale”. I reati più frequenti di chi è all’interno dell’istituto sono rapina e furto (insieme il 40%) e quelli legati alla violazione del testo unico sugli stupefacenti (29%). “Servono risposte diverse: misure alternative, percorsi di giustizia riparativa. Il carcere così fa solo danni”, osserva Gallo. Molti detenuti per la pena residua avrebbero diritto ad accedere a misure alternative alle detenzione (più del 50% degli intervistati) e la detenzione domiciliare. Spesso, anche per il fatto di essere stranieri e senza un rete sociale di riferimento, questo non è però possibile.

Un altro fronte di particolare preoccupazione è poi il frequente utilizzo di psicofarmaci da parte dei giovani con il sovra-utilizzo soprattutto di molecole con azione sedativa e ansiolitica. “Non è facile avere una dimensione esatta del fenomeno perché spesso le condotte di abuso vengono nascoste”, spiega Vincenzo Villari, direttore del Dipartimento neuroscienze e salute mentale di Torino e autore del capitolo nell’indagine. Questo sottolinea come il problema possa essere riconducibile a condotte di abuso insorte prima della carcerazione oppure all’uso di farmaci prescritti in carcere per l’insorgenza, recidiva o esacerbazione di disturbi d’ansia o del sonno. “In entrambi i casi il trattamento è complesso -osserva Villari- e richiederebbe più risorse per terapie di supporto non farmacologiche, purtroppo non sempre è così. Nella carcerazione questo dovrebbe succedere ancora di più, vista la particolare condizione di sofferenza dei giovani in carcere dove, oltre alla privazione delle libertà, c’è l’angustia degli spazi che acuisce il disagio. I farmaci lo attenuano e possono essere utili per usi sporadici su problemi acuti, ma l’utilizzo cronico può diventare problematico se si complica con condotte di abuso”.

L’istruzione, lo sport, corsi professionalizzanti capaci di rispondere ai desideri dei detenuti e attenzione alla salute. Sono questi i pilastri individuati dalla Garante per migliorare “immediatamente” la condizione dei giovani detenuti. “Fino a 17 anni e 11 mesi si va all’Istituto penale minorile, con una serie di attenzioni, dopo poco più di un mese rischi di trovarti in un carcere. Questa linea è sottile. Occorre adeguare l’offerta del trattamento. Spero che questa indagine accenda i riflettori su una fascia di popolazione giovanile di cui non si occupa nessuno”.

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