Diritti / Opinioni
Non rinchiudiamo il G8 di Genova nella teca del conformismo
I fatti di Genova vanno difesi dall’avanzare della memoria come inerzia e da evidenti processi di musealizzazione, sviluppandone al contrario la capacità di “dar fastidio” al presente. L’appello di due psicologi sociali impegnati sul campo e che hanno condotto un lavoro scientifico decennale sull’accaduto
“Iniziano i giorni in cui si parla di quei giorni” è una frase presa dai tanti post che in queste ore imperversano come un fiume in piena sui social. “Quei giorni”, passati tragicamente alla cronaca (ormai anche alla storia) come la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, sono i giorni del G8 di Genova 2001. Da allora, come un fiume carsico scorre sotterraneo per riemergere periodicamente con forza in superficie, ciclicamente desaparecido e aparecido.
Noi e il G8
Nota è la trama di quei drammatici avvenimenti, e migliaia le volte in cui le voci più disparate l’hanno raccontata. Anche noi, come tanti altri, siamo stati attraversati dal G8, per sempre segnati da ciò che è accaduto. La nostra testimonianza è stata fin dall’inizio una testimonianza scientifica: da psicologi sociali impegnati a comprendere, spiegare, contrastare e prevenire ogni forma di violenza, abbiamo cercato di offrire una chiave per capire e soprattutto aiutare coloro che hanno portato impressi nella carne e nella mente i segni della sofferenza di quei giorni. Iniziarono per noi anni di continuo studio e analisi i cui risultati sono confluiti in un libro, Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico. Dopo il G8 di Genova: il lavoro della memoria e la ricostruzione di relazioni sociali, che raccoglie il lavoro scientifico di un decennio.
Il decennale fu un potente rituale commemorativo per tutta la comunità che aveva patito quei tragici eventi. Genova raccolse ancora una volta migliaia di persone che si estendevano da un’estremità all’altra della città, ora sorprendentemente ordinata e pacifica, con cortei e camminate di un fiume umano silenzioso e rispettoso del dolore. Tuttavia, l’enorme bisogno di giustizia e il disconoscimento da parte delle istituzioni delle violazioni e delle vittime, ancora incompiuti, lacerava una ferita ancora aperta. Dopo il decennale, sono seguiti per noi anni in cui abbiamo girato lo stivale del nostro Paese in lungo e in largo per presentare il nostro libro, chiamati da associazioni e organizzazioni di vario genere, insegnanti, gruppi di comuni cittadini, biblioteche, l’ennesima dimostrazione che a Genova c’erano tutti, ma proprio tutti. Il bisogno di ricucire i momenti di quell’esperienza e di dare un nome alla propria sofferenza, un trauma psico-politico come l’abbiamo chiamato, era sentito e accumunava gran parte della cittadinanza che aveva assistito e partecipato al G8 di Genova. Era come rimettere a posto i tasselli di un’identità biografica andata in frantumi dalla violenza subita. E ancora, abbiamo continuato, là dove è stato possibile e con i nostri strumenti, ad aiutare le vittime nella loro lotta per un giusto riconoscimento e risarcimento, come nel caso del report tecnico-scientifico sulle conseguenze psicosociali della violenza a Bolzaneto redatto per i ricorsi avanzati alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Poi, l’impegno -con altri compagni di viaggio- affinché il nostro Paese si dotasse di una vera legge contro la tortura, e non semplicemente, come purtroppo avvenuto, di una legge sulla tortura.
Incontri “quasi terapeutici”
Quando presentavamo il nostro libro, ci siamo accorti di mettere in scena piccoli rituali pubblici. Generalmente, attraverso tali rituali la comunità si unisce nella tragedia condividendo emozioni e dimostrando il sostegno alle vittime di abusi e violenze, sia subito dopo un evento che nei successivi anniversari. Sono momenti che aiutano a ripristinare un certo equilibrio psicologico e agiscono a livello emotivo dando voce al disagio individuale, così che gli smarrimenti provati risultano meno minacciosi. Gli effetti emotivi della vittimizzazione collettiva sono infatti di vasta portata. La violenza non solo aggredisce/distrugge le vittime designate, ma distrugge anche famiglie, persone care fino alla comunità più estesa. Ecco perché è importante l’incontro umano: poter verbalizzare l’accaduto in un idoneo spazio sociale permette ai partecipanti di rielaborare e oltrepassare gli avvenimenti. L’impatto di questi incontri non può mai essere banalizzato perché soddisfano fondamentali bisogni umani: quante volte, dopo questi incontri, siamo stati avvicinati da giovani e meno giovani, uomini e donne, chi per ringraziare, chi per piangere sommessamente, chi per dire che ora finalmente era riuscito a dare un nome a ciò che aveva patito. E simili processi di riparazione sono pure decisivi per l’intera società, per (cercare di) smaltire il peso di un passato traumatizzante. Detto altrimenti, non si può pretendere di voltare pagina, senza prima averla letta attentamente.
Verso un conformismo emozionale?
Quest’anno è il ventennale del G8 di Genova e da poco sono terminate varie iniziative per ricordare “quei giorni”. Probabilmente è presto per trarre un bilancio, ma l’impressione generale è quella di una “normalizzazione” di opinioni ed emozioni. Forse una delle fratture d’Italia qual è il G8 di Genova si è magicamente ricomposta? A nostro avviso c’è stata invece una sorta di spinta conformistica che ha portato a consumare sul palcoscenico massmediatico la ben nota vicenda di cattivi e vittime davanti agli occhi e ai cuori di una comunità/Paese. Si è ostentato disgusto verso i malvagi, ci si è identificati con le vittime, ritrovandosi tutti d’accordo che la violenza di quei giorni sia stata un male da consegnare allo slogan preferito delle cerimonie di commemorazione, ossia il famoso (e purtroppo non rispettato) “mai più”. Vere e proprie azioni di (ri)allineamento, idonee a soddisfare le aspettative collettive che guidano i sempre benedetti sentimenti della compassione e della solidarietà. L’azione del fare memoria ci è parsa come imbrigliata in una sorta di soliloquio tra più “medici” che si sono ammassati attorno al letto del malato, pronti a elargire dosi di compassione e ricostituente morale, purché ogni cosa resti al proprio posto e nulla cambi. Insomma, per la prima volta, durante questo ventennale il G8 di Genova ci è parso a rischio di essere inserito in un processo di musealizzazione: “storicizzato” da un retro-pensiero, racchiuso dentro una bella teca di cristallo, lo si può guardare a distanza di sicurezza nei luoghi dove le comparse della commemorazione sono solite transitare velocemente, giusto il tempo per la lacrimuccia di circostanza, e poi via per un’altra cerimonia a uso e consumo di sonnolenti coscienze democratiche.
La memoria come azione
Dopo vent’anni, crediamo che il G8 di Genova vada difeso dall’avanzare della memoria come inerzia, preservando e sviluppando la sua capacità di continuare a interrogare e a dar fastidio al presente. Serve però affrancarsi da sentimenti conformisti che mirano, più o meno consapevolmente, a trattenere il G8 nel suo passato (con il corollario di una giustizia non all’altezza del suo nome). Il G8 di Genova non è esaurito dal buco nero della violenza e mai come ora il suo lascito dovrebbe invitarci a lavorare per impedire la cristallizzazione del processo di vittimizzazione e per aprire la strada a un cambiamento individuale e collettivo. Solo così sarà possibile superare la contingenza dell’accaduto, sfuggire a chi vorrebbe imprigionarlo nei libri di storia e nelle vicende giuridiche passate. Tenere viva la memoria di ciò che è accaduto, sicuramente, ma anche e soprattutto saper dare vita a ciò che non è accaduto e che dovrebbe accadere se vogliamo vivere in un mondo più giusto, più inclusivo e più sostenibile.
Adriano Zamperini è docente di Psicologia della violenza, Psicologia del disagio sociale e di Relazioni interpersonali del Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova e Direttore del Centro di Ricerca e Servizi per le Migrazioni e Studi Interculturali (CIRSIM).
Marialuisa Menegatto è psicologa clinica e di comunità, psicoterapeuta, ricercatrice, coordinatrice didattica e scientifica per il Master Sicurezza Urbana e Contrasto alla violenza dell’Università degli Studi di Padova.
Sono autori di “Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico. Il G8 di Genova: il lavoro della memoria e la ricostruzione di relazioni sociali”, Liguori, 2011
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