Diritti / Opinioni
Nominare le violenze del mondo per cambiarlo
Dai lager in Libia all’apartheid imposta da Israele ai palestinesi, mettere in parola gli orrori che ci circondano può alimentare coscienze e movimenti. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
La non-intervista televisiva di papa Bergoglio (non-intervista perché il conduttore Fabio Fazio ha evitato di porre domande che sarebbero state pertinenti ma anche scomode, per esempio sulle finanze vaticane o sugli scandali sessuali che hanno investito il clero cattolico in numerosi Paesi), la non-intervista, dicevamo, ha avuto il merito di mettere a nudo, attraverso le chiare parole di Francesco, alcune questioni decisive del nostro tempo nominandole per quello che sono, senza eufemismi né infingimenti. Il papa ha definito “criminali” le politiche europee sull’immigrazione e “lager” -rimarcando il termine- i campi di detenzione riservati ai migranti di passaggio in Libia. Sono le parole usate tante volte dagli operatori delle Ong, dagli attivisti umanitari, da qualche giornalista indipendente ma non hanno mai fatto breccia nell’informazione ufficiale e tanto meno nel dibattito politico.
L’intervento del papa ha scosso invece molte coscienze assopite, finite in quello stato di dormiveglia che permette di ignorare verità altrimenti poco sopportabili. Non che l’uso delle parole più appropriate per definire i fatti comporti di per sé un cambiamento. Basti dire, a smorzare subito eventuali entusiasmi, che personaggi politici di varie tendenze hanno addirittura lodato il papa che pure con le sue parole puntava il dito -implicitamente- proprio contro di loro, visto che le politiche “criminali” e la logica dei “lager” sono state sostenute e finanziate da tutti gli ultimi governi italiani, compreso quello attuale. E tuttavia, nominare le cose del mondo per quello che sono, è un passo necessario da compiere se si ambisce a cambiare l’ordine delle cose.
Sono 700 i chilometri di lunghezza delle recinzioni e dei muri costruiti da Israele nella Cisgiordania occupata con l’isolamento di 38 località palestinesi. I residenti sono intrappolati in enclave note come “zone cuscinetto”.
Amnesty International ha compiuto un passo del genere in un suo rapporto -pubblicato dopo tre anni di studio- sulla condizione dei palestinesi in Israele e nei territori occupati illegalmente, accusando esplicitamente quel Paese di praticare l’apartheid, un crimine contro l’umanità avversato da vari trattati internazionali. Anche in questo caso, di apartheid parlano da tempo varie organizzazioni, anche israeliane (per esempio B’ Tselem), ma il meditato intervento della Ong con base a Londra, premio Nobel per la pace nel 1977, ha il crisma della definitiva legittimazione nel discorso pubblico internazionale della cruda realtà: l’esistenza in Israele e Palestina di un regime di apartheid, appunto.
Le istituzioni israeliane hanno reagito furiosamente, accusando Amnesty International addirittura di antisemitismo applicando un sillogismo -chi critica certe condotte dello Stato di Israele è un antisemita- che rischia di banalizzare il tema e di creare confusione rispetto al vero antisemitismo (che esiste eccome, ma non riguarda automaticamente chiunque critichi le scelte politiche di Israele). Come insegna il caso del Sudafrica, riconoscere l’apartheid, nonostante le enormi difficoltà frapposte dalle autorità locali a chiunque osi anche solo nominarlo, è la premessa necessaria per immaginare un futuro diverso che potrà essere costruito solo con metodo democratico, mutualistico e nonviolento da minoranze attive di entrambe le parti, visto il fallimento delle rispettive attuali classi dirigenti, israeliane come palestinesi. Le parole non cambiano di per sé il mondo, ma la coscienza degli orrori che ci circondano può essere un potente carburante per alimentare nuovi movimenti sociali e i conseguenti mutamenti collettivi.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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