Diritti / Approfondimento
La moda dell’avvenire: etica, solidale, sostenibile e rivoluzionaria
Il movimento globale Fashion Revolution si batte dal 2013 per filiere trasparenti, sostenibili, rispettose dei diritti dei lavoratori. Mette sotto la lente i grandi marchi e ne monitora gli impatti, proponendo pratiche di rigenerazione
“Vogliamo che i nostri vestiti ci facciano sentire orgogliosi. Non vogliamo sentirci in colpa perché sono stati fatti da operaie e operai che non sono pagati abbastanza per poter mandare i loro figli a scuola o che vivono nel timore di ritorsioni se si uniscono a un sindacato per difendere i loro diritti. Non vogliamo che il cotone delle nostre camicie sia stato coltivato con pesticidi che avvelenano la terra e i contadini”. Sono le intenzioni di Fashion Revolution, un movimento globale per la moda etica, nato nel 2013 dopo il drammatico crollo della fabbrica Rana Plaza in Bangladesh che era dedicata alla produzione di abbigliamento a basso costo destinato ai mercati occidentali. Allora sono stati 1.138 i morti, principalmente giovani donne, e 2.500 i feriti: uno dei più gravi disastri industriali della storia. Per la nuova edizione del Quaderno del commercio equo e solidale dedicato alla moda, edito da Equo Garantito nel marzo 2020, abbiamo intervistato la fashion designer inglese Carry Somers, fondatrice nel 1992 del marchio di cappelli certificati fairtrade “Pachacuti” e co-fondatrice nel 2013 di Fashion Revolution insieme a Orsola de Castro, la cui carriera era iniziata come stilista con il marchio di upcycling “From Somewhere”.
Quali sono gli obiettivi raggiunti finora da Fashion Revolution?
CS Con gruppi in azione in oltre 100 Paesi in tutto il mondo, sosteniamo una maggiore responsabilità sociale e ambientale nella filiera della moda, con particolare attenzione alla trasparenza. La quarta edizione del “Fashion Transparency Index” (aprile 2019) analizza 200 tra i più grandi marchi e rivenditori di moda del mondo sulla base della loro trasparenza. Il 2019 è stato il primo anno in cui i marchi hanno ottenuto un punteggio superiore al 60%, a dimostrazione del fatto che stanno adottando misure concrete per incidere di più sulle loro politiche, pratiche e sul loro impatto sociale e ambientale. I dati raccolti mostrano un netto miglioramento rispetto al 2017, quando nessun marchio aveva ottenuto più del 50% del punteggio. In termini di tracciabilità, 70 marchi hanno pubblicato quest’anno un elenco dei loro primi produttori, dove i capi sono tagliati, cuciti e confezionati; erano solo il 12,5% nel 2016. È il risultato delle pressioni che abbiamo fatto, insieme ad altre organizzazioni, sulle aziende e rappresenta un significativo risultato in termini di crescita della trasparenza delle filiere tessili.
“Abbiamo bisogno di cambiamenti sistemici per affrontare la povertà, la disuguaglianza economica e di genere, il cambiamento climatico e il degrado ambientale”
Quali sono le campagne in corso a livello internazionale?
CS Abbiamo bisogno di cambiamenti sistemici di vasta portata per affrontare la povertà, la disuguaglianza economica e di genere, il cambiamento climatico e il degrado ambientale. Questo cambiamento deve avvenire su tre livelli: istituzionale, industriale e culturale. Una maggiore regolamentazione istituzionale è sicuramente la chiave per livellare le condizioni e far muovere i ritardatari. La due diligence (ovvero la “diligenza dovuta”, un’attività di approfondimento di dati e informazioni sull’oggetto di una trattativa) e le relazioni richieste per legge stanno già iniziando a concretizzarsi in Francia e Svizzera, e sono oggi discusse anche a livello europeo. Il “California Transparency in Supply Chains Act” (oag.ca.gov/SB657) e il “Modern Slavery Act” (2015) del Regno Unito hanno entrambi contribuito a obbligare i marchi nel rendere pubbliche le informazioni sulle attività delle loro filiere. Sempre nel Regno Unito, recentemente abbiamo collaborato con “Traidcraft Exchange” su una petizione per chiedere al Governo di creare un database di aziende tenute a pubblicare moderne condizioni di schiavitù e abbiamo anche contribuito alla recente indagine dell’“Environmental Audit Committee” sulla sostenibilità dell’industria della moda.
A livello globale, siamo al secondo anno di sperimentazione di un toolkit a favore del dialogo politico su questi temi, in collaborazione con il British Council, che quest’anno si svolgerà in Kenya e in Ruanda. In secondo luogo, sul piano industriale, il “Fashion Transparency Index” è stato uno strumento utile per aprire un dialogo con i principali marchi e rivenditori di moda del mondo su ciò che possono fare per essere più trasparenti. Sul piano culturale, invece, Fashion Revolution sta lavorando per cambiare il comportamento dei consumatori. Negli ultimi decenni, abbiamo assistito a un ciclo di crescita accelerata del settore della moda che sta mettendo indebitamente sotto pressione le nostre risorse planetarie e le persone coinvolte in questa filiera, dalla produzione fino allo smaltimento delle eccedenze. In generale, la nostra azione è volta a sensibilizzare e incoraggiare le persone a cercare dei modi diversi di rifornire i propri guardaroba, senza acquistare capi nuovi, ma sperimentando ad esempio il riuso e lo scambio di abiti, il noleggio o la personalizzazione di indumenti vintage. Gli abiti più sostenibili, infatti, sono quelli già presenti nel nostro guardaroba. Per farlo capire, organizziamo periodicamente dei corsi online, diffondiamo materiali gratuiti utili a cittadini e formatori, e realizziamo una fanzine. C’è una sensibilità crescente su questi temi.
“Una delle nostre aree di interesse saranno gli impatti ancora ‘invisibili’ dell’industria della moda: la moderna schiavitù e il lavoro forzato, le microfibre e le sostanze tossiche presenti nei nostri abiti”
Quali sono i temi emergenti e le urgenze su cui vi concentrerete nei prossimi mesi?
CS Una delle nostre aree di interesse saranno gli impatti ancora “invisibili” dell’industria della moda: ad esempio, la moderna schiavitù e il lavoro forzato, ma anche le microfibre e le sostanze chimiche tossiche presenti nei nostri abiti.
A livello personale, sono entusiasta di essere stata selezionata per partecipare a “eXXpedition Round the World”, una circumnavigazione del globo di due anni con un equipaggio tutto al femminile, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza degli impatti devastanti sull’ambiente e sulla salute delle plastiche monouso e delle sostanze tossiche negli oceani. I tessuti sono una delle principali fonti di microplastiche: rappresentano oltre un terzo dell’inquinamento microplastico globale. Per due mesi fino ai primi di marzo 2020 ho navigato dalle Galapagos all’Isola di Pasqua, per circa 2.000 miglia, verso il South Pacific Gyre, contribuendo a condurre esperimenti innovativi a bordo per misurare i livelli e i tipi di plastiche nelle acque superficiali, nelle colonne d’acqua e nei sedimenti, al fine di creare un database globale che sarà utilizzato dai ricercatori di tutto il mondo. Capire come contribuire a un futuro più sostenibile ed equilibrato, che incoraggi la transizione verso un sistema rigenerativo, è fondamentale.
Il “Fashion Transparency Index” analizza 200 tra i più grandi marchi e rivenditori di moda del mondo sulla base della loro trasparenza. Il 2019 è stato il primo anno in cui i marchi hanno ottenuto un punteggio superiore al 60%
“I grandi marchi di moda hanno l’imperativo e la capacità di attuare un cambiamento su scala globale e questo li mette in una posizione di potere. Dobbiamo accelerare questo loro cambiamento”
Che messaggio vorresti dare ai giovani di “Fridays For Future” sulla moda etica?
CS Considerando la necessità di agire con urgenza sul cambiamento climatico e guardando alle comunicazioni sempre più diffuse dei grandi marchi sui loro impegni per ridurre l’impatto ambientale, dobbiamo sempre chiederci: stanno facendo abbastanza? Per molti aspetti, infatti, i principali marchi di moda hanno svolto un ruolo chiave nell’accelerare il riscaldamento globale e sono responsabili di ripetute violazioni dei diritti umani che persistono nelle catene di fornitura globale. I grandi marchi di moda hanno l’imperativo morale, ma anche la capacità, di attuare un cambiamento su scala globale, e questo li mette in una posizione di potere. Noi dobbiamo accelerare il ritmo di questo loro cambiamento.
Nell’estate 2019 abbiamo pubblicato le nostre “Climate Emergency Measures” delle risorse che mettiamo a disposizione per essere parte del cambiamento nel mondo della moda, ad esempio limitando i nostri consumi, comprando meno e meglio. Ma anche facendo pressione verso le aziende produttrici, affinché riducano il loro impatto ambientale. Sul tema del consumo di massa, dei rifiuti tessili, del riciclo e della moda circolare pubblichiamo periodicamente online una fanzine. Una s’intitola “Loved Clothes Last”: una vera dichiarazione d’amore verso quei vestiti che durano una vita.
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