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L’ultimo oltraggio a Gianna, protagonista della cattura di Mussolini sul Lago di Como
Tra gli oltraggi che i fascisti dedicano alla Resistenza c’è quello rivolto di recente a Giuseppina Tuissi, Gianna, tra i protagonisti della cattura di Mussolini e dei gerarchi sul Lago di Como, uccisa il 23 giugno 1945, a ventidue anni, dai suoi compagni. La sua storia nel racconto di Cecco Bellosi, scrittore, coordinatore dell’”Associazione Comunità Il Gabbiano”
Tra gli oltraggi ignobili che ormai ogni giorno i fascisti del terzo millennio, uguali a quelli dell’ultimo secolo del Novecento, dedicano alla Resistenza c’è quello particolarmente abietto rivolto a Giuseppina Tuissi, Gianna ai tempi della guerra partigiana. La formella con la scritta “Dopo settantuno anni, tolta ogni infamia, onore ricevi partigiana Gianna” è stata scolpita nel 2016 a Baggio sulla casa dove era nata. Al confine tra la città e la campagna, dove era nata e cresciuta in una famiglia così povera da non avere spesso nulla con cui nutrirsi. Una casa così piccola da risultare minima.
Gianna è stata una dei protagonisti della cattura di Mussolini e dei gerarchi sul Lago di Como: un pugno di partigiani che hanno riscattato l’ignavia di un popolo.
Giuseppina Tuissi è stata uccisa il 23 giugno 1945, a ventidue anni, dai suoi compagni: il suo corpo giace inquieto sul fondo del Lago. Aveva vissuto in ventiquattro mesi quello che molte persone non sono costrette ad affrontare o a scegliere in una lunga vita. Quella ragazza aveva trovato la voglia di cambiare il mondo dentro gli scioperi del marzo 1943 alla Borletti di Milano, una fabbrica che si era messa improvvisamente a produrre comunisti oltre alle più classiche macchine per cucire. Aveva vent’anni, i sogni leggeri di una realtà quotidiana pesante, gli occhi di un blu intenso, più vicino al cobalto del mare aperto che all’azzurro tenue del cielo.
Come spesso capita in questi casi, parlavano da soli.
E dicevano, fino all’arresto e alle torture, del suo amore per la vita, per il suo uomo e, con la scelta difficile della guerra partigiana, per la Resistenza. Il suo compagno, Gianni Alippi, stava nei GAP, i Gruppi di Azione Patriottica, il cuore della guerriglia; lei faceva la collegatrice tra i diversi gruppi. Il 28 agosto 1944 vide Gianni costretto al muro in via Tibaldi, insieme a tre suoi compagni, ucciso dalle raffiche rabbiose della legione Ettore Muti. Quella di cui un morbo di Alzheimer collettivo ha fatto perdere la cattiva memoria. L’immagine dura di colpi secchi e ravvicinati a sconvolgere i corpi amici non avrebbe mai potuto conoscere la dissolvenza di una fotografia sfocata. Era carne della sua carne. Del suo compagno, prese il nome nella Resistenza.
Il Partito Comunista capì che la ragazza per le vie di Milano avrebbe rivissuto ogni giorno la stessa scena. Preso per una volta da un soffio di tenerezza, il partito decise di mandarla sui monti del Lago di Como: un mondo in cui il nemico era costretto ad aggredirti di fronte, non alle spalle. La montagna poteva offrire a volte una via di fuga; la città era inesorabile nella sorpresa senza alcuna possibile via di scampo. Sul lago e i suoi monti Gianna trovò invece l’amore e la morte.
L’amore assoluto le esplose dentro per un comandante partigiano, il capitano Neri, dalle cui braccia protettive e sicure si sentì dolcemente avvolta. La morte le fu data a guerra finita: una parte dei suoi compagni non riuscì a perdonarle di essere stata torturata. A gennaio del 1945, arrestata dai fascisti, era stata presa per giorni e giorni a calci e pugni; era stata picchiata con un nerbo di bue fino a sanguinare e a perdere i sensi; aveva dovuto sopportare i getti d’acqua gelata; era stata violentata; infine, piena di lividi e di piaghe, era stata buttata nuda in mezzo alla neve in uno stillicidio di sadismo quotidiano. Lo confessarono al processo che si tenne nel Dopoguerra i suoi torturatori, lo testimoniarono le sue compagne di detenzione: i militi dell’ufficio politico del Partito Repubblicano Fascista di Como furono esclusi dall’amnistia emanata dal ministro di Grazia e giustizia Palmiro Togliatti proprio per le torture inflitte a Luigi Canali, il capitano Neri, e a Giuseppina Tuissi.
Le fotografie di Gianna dopo la cura erano quelle di Auschwitz.
Sottoposta a quelle sevizie per oltre un mese, si lasciò scappare il nome di una base milanese. Praticamente nulla. Ma un nulla sufficiente per alcuni suoi compagni a ucciderla.
Nel 1987, Rossana Rossanda ha scritto parole intensamente inconsuete per chi ha mangiato a lungo il pane e la politica del partito: “E mi sfilavano davanti le immagini dei compagni uccisi. Questo ricordo, vivido come i colori freddi d’una giornata d’aprile nel Nord, e quello immediatamente successivo del Neri e della Gianna, uccisi dai loro e miei compagni”.
Un drammatico errore, in quella che era stata una grande storia: ogni sogno di liberazione porta con sé i suoi incubi. L’ombra e la profondità: Gianna è lì sotto in quelle acque scure, all’ombra di un sogno perduto.
I fascisti del secolo scorso l’avevano torturata, seviziata, violentata. I fascisti del terzo millennio continuano nella tradizione. Vezzeggiati e coccolati dal ministro dell’interno. Come ai vecchi tempi. I loro, di fango, impunità e sangue.
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