Diritti / Intervista
Louise Mottier. Come si dice dream?
L’operatrice sociale di origine francese racconta in un libro illustrato rivolto soprattutto agli adolescenti europei le storie dei loro coetanei provenienti da altri Paesi. Si sono messi in viaggio da soli, tra sogni, progetti e difficoltà
“Non sempre si trovano le parole, i modi ‘giusti’ per rispondere alle domande di chi ha una gamba da adulto e una da bambino. Ogni giorno, in comunità, è una nuova sfida”. Proprio quella quotidianità “sempre diversa” vissuta da Louise Mottier, 27enne originaria del Nord della Francia, in una struttura per minori stranieri non accompagnati (Msna) di Genova è diventata un libro illustrato. “Come si dice dream? Storie di vita di adolescenti in esilio” pubblicato da Edizioni Gruppo Abele nel novembre 2022 è la versione italiana di “Les conquérants” (“I conquistatori”) uscito in Francia nell’ottobre 2021 per i tipi di Hors D’atteinte. “Non una semplice traduzione dal francese -spiega Mottier- ma una versione pensata per gli adolescenti. Un linguaggio diretto e semplice con tante immagini per raggiungere un obiettivo: dimenticarsi che i protagonisti sono stranieri e vederli semplicemente come coetanei con storie di vita diverse”. La matita di Michela Tirone, illustratrice, ha impreziosito il racconto dell’autrice raffigurando questi giovani viaggiatori, i loro tormenti, i loro sogni, le difficoltà affrontate del ritrovarsi “immersi” in un mondo poco conosciuto.
Che cosa significa per un ragazzo di 16-17 anni essere catapultato in un “mondo” spesso molto diverso da quello di provenienza?
LM I nostri “schemi” non sempre sono i loro. Il confine ma anche il concetto di adolescenza sono molto occidentali. Noi individuiamo nel diciottesimo anno di età il passaggio al mondo adulto ma in tante culture non esiste questa idea. Alcuni non conoscono di preciso nemmeno la propria età e ti dicono chiaramente che quando erano a casa non veniva mai chiesta loro la data di nascita. O magari, in alcuni Paesi la soglia della maggiore età è diversa, in altri casi il villaggio in cui sono nati è molto piccolo e non esiste il registro civile. Queste differenze impattano con il nostro mondo tanto burocratizzato. Così lo Stato italiano chiede loro, al compimento dei 18 anni, di conoscere la lingua, di essere capaci di reggere l’autonomia, portare avanti fin da subito un inserimento lavorativo. Però in comunità magari ancora non sanno fare il letto, oppure dove andare a comprare le calze. Il loro percorso di crescita si è sviluppato contemporaneamente al loro viaggio: in qualche modo hanno bisogno di cura e delicatezza. E spesso il tempo manca, così come la progettualità da parte loro.
In che senso?
LM Non si può generalizzare, ovviamente. Ma spesso vista l’età qualcuno ha le idee ancora confuse: non sanno se vogliono restare, se raggiungere la famiglia in un altro Stato europeo, quale lavoro cercare e cosa fare. La loro prospettiva spesso è un “giorno dopo l’altro” senza grandi progetti. Questo è anche il bello e il difficile del lavoro dell’operatore: riuscire a immaginare con loro una strada da percorrere. A volte però amministrativamente parlando il tempo corre.
Cioè?
LM Compiuti 18 anni devono uscire dalla comunità. Se una persona arriva a 17 anni e 8 mesi, che cosa puoi fare in così poco tempo? Li sposti subito in altri centri -se ci sono i posti- ma a volte sarebbe necessario fermarsi un po’ di più e permettergli di crescere per una volta in tranquillità, senza i continui sballottamenti da una struttura all’altra.
“A Parigi lavoravo nel sociale, in un centro diurno per adulti. Era il 2018 quando dalla porta è entrato un bambino, zainetto in spalla. Aveva appena 12 anni e mi sono chiesta come fosse possibile”
Da dove provengono i protagonisti del suo diario viaggio?
LM Sono soprattutto ragazzi tra i 14 e i 18 anni. Quando ero in comunità c’erano soprattutto albanesi e poi giovani originari della Tunisia, Bangladesh, Ghana, Senegal e Gambia. Sono storie molto differenti tra loro. Alcuni avevano come obiettivo l’Italia, altri no ma semplicemente le regole restrittive sulla mobilità li hanno “bloccati” nel Paese. Questo è difficile. A volte di trovi davanti a persone che non hanno scelto fino in fondo di essere dove sono.
A volte il restare in Italia è dettato dall’attesa dei documenti?
LM Nel libro racconto l’intervento di Momo, un ragazzo accolto in comunità che un giorno durante una testimonianza rivolta alla cittadinanza ha preso il microfono e spiegato che in Italia “senza documenti, non sei nemmeno un cane”. Per loro il permesso di soggiorno è fondamentale ma anche in questo caso si ritorna il problema di prima. Vengono chieste loro delle “prove” su chi sono, da dove vengono, e soprattutto della loro età. Per chi arriva dall’Albania e ha un passaporto è più semplice, per tutti gli altri, arrivati qui senza la possibilità di percorrere una strada “legale” non lo è.
Altri invece non aspettano il documento. Spesso nel sentire comune si vedono le comunità per minori come luoghi dove il “via e vai” è continuo. Tanti abbandonano prima che si concluda il percorso. È così?
LM In parte sì, racconto anche nel libro di alcune uscite “brusche”, avvenute da un giorno all’altro. Ma nella mia esperienza la maggior parte dei percorsi sono stati portati avanti fino a quando era possibile. Poi è chiaro. Se arrivi da un Paese francofono, chi di noi resterebbe dove si parla una lingua difficile da imparare quando a meno di 200 chilometri ne parlano una che riesci a comprendere fin da subito? Sicuramente per loro trovare stabilità è complesso ma questo è normale per l’età che hanno. E poi, soprattutto, hanno poche cose nello zainetto magari pochissimi legami. Prendere e partire di nuovo è più facile. Oltre all’abbandono, in Italia come in Francia, si collegano i minori stranieri soli alla delinquenza. Un’altra generalizzazione. E poi, spesso, bisogna comprendere il perché di certe scelte: se mancano diritti è più facile cedere alle “tentazioni” del guadagno facile che offrono le reti criminali.
Che cosa ha significato per lei lavorare in una comunità?
LM Ho imparato la flessibilità, a fare cose diverse tutti i giorni. Non sai mai cosa succede. E poi cresci, condividi le tue giornate con un mix di culture diverse e questo si traduce in uno scambio costante. Durante il periodo trascorso a Genova avevo 23 anni, loro ne avevano 16, 17. Eravamo molto vicini come età. Sicuramente ti stupisce la solidarietà tra loro, senza barriera di lingua o religione. Penso a quando si sono ritrovati a condividere il Ramadan tutti insieme nonostante venissero da tanti Paesi diversi. La comunità ti permette di creare una relazione profonda perché li vedi dal mattino alla notte. E soprattutto durante la quotidianità fatta di tanti momenti semplici: un momento di sport, un pasto condiviso o un’uscita al mare insieme.
Quali sono i due aneddoti che le stanno particolarmente a cuore del suo periodo in comunità?
LM Sicuramente tutti i weekend passati in struttura. Sono momenti particolari perché il ritmo è diverso: sveglia tardi, pasto più lento, molto tempo per giocare e parlare. Correvi lo stesso ma per motivi diversi, non per il tran tran delle emergenze settimanali. E poi il compleanno di Elio: ha spento 16 candeline ma si è messo a piangere perché è la prima volta che festeggia senza la mamma al fianco. Ti colpisce e ti fa pensare alle “due gambe” da adulto e da “bambino”.
Perché ha deciso di trasferirsi a Genova per due anni?
LM Già a Parigi lavoravo nel sociale, in un centro diurno per adulti. Era il 2018 quando dalla porta è entrato un bambino, zainetto in spalla. Aveva appena 12 anni e mi sono chiesta come fosse possibile tutto questo. Da qui è nato il mio interesse e grazie a un programma del Servizio di volontariato europeo ho deciso di venire in Italia. Anche perché è un Paese interessante: una delle sponde del ping pong che spesso si crea tra i due Paesi con le persone che dalla Francia rientrano sul territorio italiano per il regolamento di Dublino e poi fanno il percorso al contrario per tornare da noi.
Differenze e affinità tra il modello francese e quello italiano?
LM Certe cose cambiano, sicuramente. Purtroppo però le mancanze sono simili. Pochi finanziamenti, pochi posti e tanti giovani per strada, pochi operatori. Spesso sono luoghi in cui più che sforzarsi per migliorare l’incontro tra due mondi diversi si fa assistenza, si tampona l’emergenza. Un minore straniero ha una diaria più bassa di uno italiano. Questo ti fa capire che politicamente c’è poca attenzione. Dal budget spesso passa tutto: più che fare azioni “educative” rischi di fare bricolage arrabattandoti tra quello che si può fare. E su questo il conflitto in Ucraina ci ha dimostrato che i mezzi ci sono, gli alloggi e i permessi di soggiorno anche. Purtroppo il passaporto fa ancora la differenza.
A chi è rivolto “Come si dice dream?”
LM A tutti ma specialmente ai giovani coetanei dei protagonisti della storia. Ho usato un linguaggio semplice e diviso il testo in piccoli capitoli facilmente accessibili. Spero di riuscire a far immaginare loro la quotidianità che vivono, le sfide, le vicinanze e le differenze con “noi”. E poi entrare “a casa loro”. Quella comunità tra i vicoli di Genova che è un po’ diventata anche per me, che vivevo lontana da casa, il mio rifugio.
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