Diritti / Intervista
Licia Badesi. Contro la “gelosia d’amore”
Badesi, docente in pensione e storica appartenente al movimento femminista italiano, ha ricercato le sentenze sui reati contro le donne commessi nella provincia di Como dal 1862 al 1928. Gli imputati sono assolti o le condanne diminuite. E le vittime diventano colpevoli. Una dinamica attuale
“Per gelosia d’amore”. È il titolo scelto da Licia Badesi -docente di lettere e storia in pensione, storica appartenente al movimento femminista italiano eletta alla Camera dei Deputati nella IX legislatura- per il libro di cui è autrice nel quale, grazie a un meticoloso lavoro di ricerca nell’archivio di Stato di Como, ha ricostruito le vicende processuali per reati di cui molte donne sono state vittime dal 1862 al 1928. In casi di violenze fisiche, stupri e omicidi, proprio la “gelosia d’amore” è stata l’“attenuante” che ha spinto i giudici a prendere decisioni che hanno diminuito la pena dell’imputato o che lo hanno assolto. “Il riferimento è a una sentenza del 1862: un uomo è accusato di omicidio volontario per avere ucciso una donna, Linda, tagliandole la gola con un falcetto. Nelle carte si legge che il reato è stato commesso con premeditazione ma sotto l’influenza di una ‘passione per gelosia d’amore’ forte al punto da limitare la capacità dell’assassino di pensare con lucidità. La pena è allora ridotta a dieci anni”, spiega Badesi. “La storia è indicativa del sentire comune del periodo storico in cui ci troviamo, tra l’unificazione dell’Italia e l’avvento del fascismo”, prosegue l’autrice che ha pubblicato il libro nel 2020 con Soroptimist International d’Italia-club di Como, associazione attiva nella creazione di opportunità volte a sostenere le donne.
Gli atti di indagine, i processi e le sentenze permettono a chi legge di ricostruire il contesto sociale e culturale su cui poggiano le motivazioni dei giudici, le dichiarazioni degli imputati, le decisioni delle famiglie e dei padri che finivano per non sporgere denuncia anche se le figlie avevano subito una violenza. Tutto si basa “sull’idea che la donna non sia libera ma sia proprietà di un uomo. Una concezione che porta a sentenze che riflettono un atteggiamento di comprensione nei riguardi dell’assassino, il padrone che non può essere respinto. Alla fine la donna non è più la vittima. Non sembra cambiato molto da quello che succede oggi nel sentire comune”, spiega Badesi. Le questioni di genere non sono estranee all’autrice: classe 1932, alla fine degli anni Settanta ha fondato a Como il centro culturale Dimensione donna, finalizzato a realizzare progetti di ricerca sulla condizione femminile, e ha fatto parte dell’Unione donne italiane (Udi). C’era stato un lavoro d’archivio anche alla base del suo precedente libro, “Separati di letto e di mensa”, pubblicato con la collaborazione del comitato pari opportunità dell’ordine degli avvocati di Como, una raccolta dei verbali sulle separazioni avvenute tra il 1865 e il 1928 presso il tribunale di Como.
È la tendenza a pronunciare verdetti che assolvono l’imputato, o che ne diminuiscono la condanna, a segnare un filo rosso che lega le storie sottratte alla polvere. “Tra le sentenze ci sono alcune attenuanti che ricorrono con frequenza. I giudici parlano di un comportamento non opportuno della donna e tale da spingere l’uomo ad avere una reazione. O ancora si legge di un ‘dolore intenso’ dovuto a una ingiusta riparazione”, spiega Badesi. “Questo porta a giustificare il comportamento di chi ha offeso o ucciso”. I giurati infatti riconoscevano il vizio totale o parziale di mente, affermando che il delitto era stato commesso in uno “stato di pazzia”, di “morboso furore” o di “infermità mentale” che determinavano l’assoluzione o la diminuzione della pena.
“Dietro c’è sempre lo stesso ragionamento. Non si accetta che le donne siano libere e autonome, che possano dire un no, rifiutarsi e allontanarsi dal marito”, prosegue. Le donne delle storie recuperate da Badesi volevano separarsi, o lo avevano già fatto, e avevano denunciato l’aggressore. E a commettere le violenze sono principalmente mariti, ex partner o uomini allontanati. “Nelle indagini e in tribunale sulle donne pesano gli stereotipi sul loro presunto ruolo. Un meccanismo, ancora ben presente, che finisce per rendere l’uomo una vittima di ipotetici comportamenti ‘poco appropriati’ della donna”, aggiunge l’autrice. “Penso ai casi di stupro. In una delle storie raccolte, Emilia è violentata la notte a turno da due giovani del paese che poi iniziano a mettere in dubbio i comportamenti della ragazza. Dopo la denuncia del padre, i ragazzi sono arrestati ma trovano parenti e amici che testimoniano in loro favore. Alla fine prevale la tesi della difesa per cui ‘contro una donna che voglia realmente ribellarsi a uno stupro è quasi impossibile opporsi’. La ragazza è costretta a pagare le spese processuali e i due non sono perseguiti”.
Nel periodo storico analizzato nel testo, la violenza di genere era regolata dalle norme del codice penale sardo del 1859 -esteso dopo l’unificazione a tutte le province annesse- e successivamente dal codice penale italiano del 1889 che disciplinava il reato di “maltrattamenti coniugali” come reati contro la persona. Il reato di violenza sessuale, invece, è rimasto disciplinato tra i delitti contro la morale fino al 1996, quando è stato inserito in quelli contro la libertà personale. “Questo deve farci riflettere sul ritardo nella formazione delle leggi rispetto ai cambiamenti nella società”, afferma Badesi. “È necessario ricordare che i cambiamenti legislativi ottenuti negli ultimi anni sono stati raggiunti soprattutto grazie ai movimenti delle donne”, spiega. “La riforma del diritto di famiglia, le legge per il divorzio, le norme contro la violenza sessuale sono il risultato della loro onda d’urto decisiva. Ma c’è ancora molto da fare”.
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