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Ambiente / Inchiesta

Le multinazionali europee del cibo non rispettano le promesse fatte sull’uso della plastica

© Eduardo Soares - Unsplash

Un’inchiesta della Deutsche Welle ha dimostrato che due terzi degli impegni “sostenibili” assunti dalle aziende non sono stati rispettati o sono stati trascurati. Le aziende del settore food and beverage non hanno mantenuto la parola, ricorrendo al greenwashing. L’importanza delle leggi al posto di target volontari

Nel 2008 il colosso francese del cibo Danone ha stabilito un obiettivo ambizioso: entro il 2009 il 50% della plastica usata per le sue bottiglie d’acqua sarebbe stato ottenuto da materiali riciclati. Il report di sostenibilità di Danone definì il provvedimento “una strategia per ridurre il peso delle confezioni e diminuire le emissioni di CO2”. Sarebbe stato un passo nella direzione giusta nella lotta contro l’inquinamento globale da plastica, un materiale che non soltanto è uno dei principali prodotti ottenuti da combustibili fossili quali il petrolio e il gas ma è anche uno dei più duraturi. Le bottiglie di plastica, per esempio, possono impiegare fino a 450 anni prima di degradarsi. Inoltre questo processo produce frammenti di microplastiche che danneggiano sia gli animali sia gli esseri umani, contaminando gli oceani, il suolo e perfino l’aria. Il settore alimentare e delle bevande è uno dei maggiori responsabili dell’inquinamento globale causato dalla plastica.

Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), nel 2019 sono stati rilasciati nell’ambiente 79 milioni di tonnellate di detriti di plastica che sono stati dispersi nel suolo o in acqua, sono stati bruciati in roghi a cielo aperto o sono finiti nelle discariche. Questa cifra rappresenta più di un quinto del totale. Ma le imprese stanno rispettando le promesse di operare in modo più ecologico? Per scoprirlo, l’emittente pubblica tedesca Deutsche Welle (DW) e l’European data journalism network hanno svolto ricerche su alcune delle più grandi aziende europee di prodotti alimentari e bevande.

Danone non lo fa. Già nel 2009 l’obiettivo che l’azienda si era data l’anno prima era cambiato: “Il gruppo ambisce a raggiungere il 20-30% (di uso di plastica riciclata, ndr) nel 2011 -si legge nel rapporto di quell’anno-. Fino ad arrivare al 50%”. Quando l’azienda francese non ha rispettato il nuovo obiettivo fissato, ha spostato di nuovo il target. E poi ancora un’altra volta. Nel 2020 usava ancora il 20% di Pet riciclata nelle sue bottiglie di acqua in tutto il mondo. E, per il 2025, ben 16 anni dopo la prima scadenza che si era data, Danone ha fissato per i suoi prodotti un obiettivo già annunciato: utilizzare il 50% di plastica riciclata nella produzione delle sue bottiglie per l’acqua.

Percentuale effettiva di plastica riciclata nelle bottiglie di acqua Danone. Fino al 2015 ha comunicato il suo obiettivo per il 2020 in riferimento alla produzione globale. In seguito sembra che l’azienda abbia modificare il suo obiettivo riferendosi soltanto ai “Paesi dove è consentito” l’uso di Pet riciclata, escludendo spesso dalla sua analisi Turchia e Cina. Nei calcoli modificati, Danone avrebbe raggiunto di misura il suo obiettivo per il 2020, con materiali riciclati nel 25,5% nelle bottiglie di acqua nei Paesi dove ciò è consentito. Il grafico raffigura l’ambizione originale comunicata dai rapporti di Danone. L’azienda non ha risposto alla richiesta di commentare queste discrepanze © DW ed European data journalism network

Complessivamente DW e i suoi partner hanno individuato 98 impegni relativi alla plastica annunciati negli ultimi vent’anni da parte di 24 aziende del settore food and beverage con sede in Europa. Più della metà di queste promesse sono state fatte soltanto negli ultimi anni, e la maggior parte fissa obiettivi per il 2025. Almeno 37 di questi impegni avrebbero dovuto già essere onorati e il bilancio non è positivo: il 68% ha chiaramente fallito l’obiettivo oppure l’azienda non ha più fatto sapere nulla in proposito. Quando le società non rispettano i loro impegni di solito non lo comunicano pubblicamente, al contrario lasciano cadere l’argomento senza farne parola, fanno slittare la scadenza dell’obiettivo oppure ne modificano la portata. Quando i target non erano verificabili DW ha contattato l’azienda responsabile e, se sono stati forniti chiarimenti, ha aggiornato i dati pertinenti. Quando le società non hanno fornito ulteriori commenti sugli obiettivi, questi sono rimasti etichettati come “non chiari”.

La maggior parte delle promesse sull’uso della plastica falliscono o non se ne sente parlare più © DW ed European data journalism network

Queste cifre sono in linea con gli studi condotti in altri ambiti: nel 2021 l’Unione europea ha svolto delle indagini sulle dichiarazioni green nei siti aziendali di diversi settori come l’abbigliamento, la cosmesi e gli articoli per la casa, scoprendo che il 42% delle dichiarazioni erano probabilmente esagerate, false o fuorvianti. Rispetto agli obiettivi che si suppone siano stati raggiunti, alcuni erano stratagemmi di marketing piuttosto che veri e propri miglioramenti. È il caso, ad esempio, dell’azienda belga Anheuser-Busch InBev, che commercializza birre come Budweiser, Corona e Beck’s. Nel 2017 ha annunciato di voler proteggere “cento isole dall’inquinamento marino da plastica entro il 2020”. In concreto l’azienda non si è impegnata in pratiche di tutela a lungo periodo, ma ha organizzato 214 eventi una tantum di pulizia delle spiagge in 13 Paesi e ha dichiarato quegli impegni un successo un anno prima della scadenza prevista.

“Molte aziende utilizzano la pulizia delle spiagge per farsi pubblicità -spiega Larissa Copello, attivista della rete ambientalista Zero Waste Europe che si batte per ‘chiudere i rubinetti’ e ridurre i rifiuti da imballaggio all’origine-. In verità, sono proprio loro a riversare tutti quei rifiuti sulle spiagge”. DW ha riscontrato poi che soltanto 19 delle 98 promesse riguardavano l’impegno a ridurre la quantità di plastica usata per il packaging o l’utilizzo del prodotto vergine: la maggior parte di esse non sarà rispettata se non in futuro.

Sedici delle 24 aziende monitorate da DW hanno promesso di produrre imballaggi con plastica riciclata. Ma questo non dà garanzie sul fatto che i rifiuti saranno gestiti e trattati correttamente. “Se non esiste un’infrastruttura che raccoglie questi materiali separatamente, non potranno essere utilizzati”, sottolinea Copello. Lo stesso vale per i prodotti che si pensa siano biodegradabili o compostabili: “In Belgio non abbiamo una raccolta differenziata per i materiali compostabili o biodegradabili. Di conseguenza finiscono tutti insieme nei bidoni dell’indifferenziato”, conclude l’attivista.

In un terzo degli impegni analizzati le aziende hanno promesso di includere nelle loro confezioni una quantità maggiore di plastica riciclata. Questo sarebbe già un miglioramento, spiega Larissa Copello e alcuni piccoli progressi sono già stati fatti: Ferrero, per esempio, ha iniziato ad aumentare la quantità di Pet riciclata negli imballaggi secondari già nel 2010. Coca-Cola HBC ha lanciato una bottiglia realizzata al 100% da Pet riciclata per quattro dei suoi marchi di acqua nel 2019, a un anno dall’annuncio.

Nel complesso la domanda di plastica riciclata resta bassa mentre i prezzi sono elevati, il che implica che per le aziende è di gran lunga più conveniente usare plastica vergine. Le iniziative su base volontaria non sono sufficienti, spiega Nusa Urbancic, campaigns director per Changing markets foundation, organizzazione con sede a Bruxelles che lavora per svelare pratiche aziendali non responsabili e a fare pressioni per l’implementazione di leggi più severe sul consumo di plastica. “Invece di usare il loro potere, i loro soldi e le loro risorse per trovare le soluzioni molto spesso le aziende fanno il contrario -commenta Urbancic-. Si nascondono dietro impegni su base volontaria per non attuare i cambiamenti che sarebbe necessario concretizzare”. Secondo Urbancic gli impegni volontari da parte delle aziende sono spesso una tattica consapevole messa in atto per rimandare l’adozione di leggi più stringenti e distrarre l’attenzione. Nel suo rapporto intitolato “Talking trash“, Changing markets illustra nei dettagli le pressioni aziendali esercitate da lungo tempo contro gli efficaci sistemi di riciclo.

Nonostante le pressioni esercitate dalle aziende, l’Unione europea di recente ha approvato un’ambiziosa normativa in materia. In base alla direttiva Single use plastics (Sup), ad esempio, gli articoli usa e getta come i sacchetti, le posate e le cannucce non possono più essere distribuiti nei mercati europei. Questa decisione segue l’esempio di Paesi africani come l’Eritrea che ha vietato i sacchetti di plastica nel 2005, il Rwanda (2008) e il Marocco (2009). La direttiva dell’Ue prevede anche un obiettivo preciso per incorporare entro il 2025 il 25% di plastica Pet riciclata ed entro il 2030 il 30 per cento in tutte le bottiglie.

Le ambizioni delle aziende per l’azzeramento dell’uso di plastica vergine variano notevolmente © DW ed European data journalism network

Probabilmente alla legge si deve (almeno in parte) il rapido aumento di impegni assunti dalle società in merito ai contenitori di plastica. “Ha fatto sì che si rendessero conto che devono moltiplicare i loro sforzi per rispettare quegli obiettivi”, commenta Nusa Urbancic sottolineando come adesso siano le aziende stesse a chiedere migliori sistemi di riciclo per essere aiutati a rispettare i loro obblighi di legge.

Sono numerose le iniziative che stanno raccogliendo all’interno di database pubblici le promesse su base volontaria delle aziende. L’Ue compila elenchi sull’European circular economy stakeholder platform, mentre la Ellen MacArthur foundation raccoglie le iniziative dei firmatari del suo programma Global Commitment riguardante la plastica. Le promesse fatte alla fondazione hanno ambizioni molto variabili. Unilever, per esempio, ha dichiarato di voler ridurre l’uso di plastica di nuova produzione del 50% tra il 2020 e il 2025, mentre Ferrero ha fissato il proprio obiettivo al 10% e la francese Pernod Ricard (specializzata in vini e liquori) si è impegnata per una riduzione di appena il 5%.

Larissa Copello di Zero Waste e Nusa Urbancic di Changing markets considerano gli impegni su base volontaria come quelli richiesti dall’Ellen MacArthur foundation meno efficaci delle leggi. Urbancic definisce questa strategia “solo carota e niente bastone. Le aziende non sono obbligate nemmeno a rendere note informazioni di base come la loro impronta relativa al consumo di plastica. E i dati pubblicati non vengono verificati in modo indipendente”. Come altri schemi su base volontaria, ha continuato, anche questo corre il rischio di essere usato come una cortina di fumo per facilitare il greenwashing e procrastinare il cambiamento vero e proprio.

Changing Markets raccomanda che, quanto meno, le iniziative volontarie fissino obiettivi ambiziosi di partecipazione, garantendo che gli aderenti siano tenuti a riferire i loro progressi e le aziende rispondano pubblicamente del loro operato. Nei prossimi anni, l’Unione europea si propone di introdurre leggi sulla plastica più scrupolose in conformità al Circular Economy Action Plan, che comprenderà obiettivi precisi per il riciclo della plastica e provvedimenti per evitare. Cambiare è indispensabile: la produzione globale di plastica sta ancora aumentando e si prevede che così continuerà a farlo nei prossimi decenni.

Allo scopo di rallentare questo aumento, è indispensabile che altri Paesi si uniscano allo sforzo. Dai dati risulta che le aziende modificano le loro pratiche soltanto quando avvertono le pressioni derivanti dalle leggi, dall’essere chiamati a risponderne pubblicamente e dalla domanda dei consumatori. La nuova cartina di tornasole arriverà nel 2025, quando le aziende dovranno aver soddisfatto le attuali promesse fatte sull’uso della plastica. Alcune di esse ormai sono obbligatorie, quanto meno nell’Ue.

Julia Merk ha contribuito con le sue ricerche all’inchiesta. Editing: Milan Gagnon, Sarah Steffen, Gianna Grün.

Questo progetto è stato realizzato in collaborazione con diversi media europei all’interno dell’European data journalism network. DW è il capofila Alternatives Economiques, EURACTIV, Interruptor, OBC Transeuropa, Openpolis and Pod crto sono i partner. L’articolo originale è stato pubblicato sul sito di DW. Hanno collaborato alla traduzione Gian-Paolo Accardo, Andrea Siccardo e Ilaria Sesana.

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