Crisi climatica / Approfondimento
Le città europee sono indietro nell’adattamento ai cambiamenti climatici
Uno studio pubblicato su Nature ha esaminato i piani di 327 città di grandi e medie dimensioni nell’Ue, rilevando come sia ancora bassa la qualità delle misure adottate. L’Italia è indietro sia per quantità sia per qualità dei piani messi a punto. Il “caso” del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici
Le città europee sono in ritardo nello sviluppo e nell’attuazione di piani per far fronte agli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Seppur migliorata, la qualità delle misure adottate è ancora bassa. L’Italia rimane molto indietro per quantità e qualità dei piani. È la conclusione di uno studio pubblicato a marzo sulla rivista scientifica npj Urban Sustainability del gruppo Nature, “Quality of urban climate adaptation plans over time“, che ha esaminato i piani di 327 città di grandi e medie dimensioni nell’Unione europea (28 Paesi) nel periodo 2005-2020.
I piani di adattamento comprendono una serie di misure per ridurre la vulnerabilità di persone e settori socioeconomici a condizioni meteorologiche estreme come alluvioni, siccità, temperature estreme. Possono includere strategie di gestione delle acque contro la siccità, il potenziamento delle infrastrutture di protezione dalle inondazioni, ma anche misure di mobilità sostenibile e di gestione del verde urbano.
Per tracciare i progressi nel tempo e valutare la qualità dei piani di adattamento, gli autori dello studio hanno creato l’Indice di valutazione della qualità dei piani di adattamento (ADAptation plan quality assessment index – Adaqa). Questo prende in considerazione diversi fattori e ha l’obiettivo di esaminare tre aspetti specifici dei piani: la completezza, cioè quali e quanti settori interessano le misure (ad esempio: edilizia, trasporti, energia, acqua, rifiuti, agricoltura, salute); l’ampiezza, vale a dire la quantità e la varietà delle misure rispetto al singolo rischio/impatto; e la coerenza per valutare che le misure sviluppate siano allineate e integrate tra loro.
“L’aspetto innovativo di questa ricerca riguarda proprio la coerenza”, spiega Monica Salvia, ricercatrice dell’Istituto di metodologie per l’analisi ambientale (Imaa) del Cnr e tra le autrici della pubblicazione. “L’indice sviluppato combina i criteri di qualità dei piani maggiormente utilizzati in letteratura scientifica valutando l’allineamento tra impatti, rischi, obiettivi, misure, monitoraggio e partecipazione pubblica. Volevamo quindi capire se nel processo di pianificazione dell’adattamento una città ha valutato i rischi e le vulnerabilità che derivano dal clima, se ha progettato misure e strategie che rispondono a questi rischi e proteggono i gruppi più vulnerabili, e se nel tempo è anche in grado di valutare l’efficacia delle azioni previste. Per fare un esempio: se una città identifica tra i rischi dei cambiamenti climatici le ondate di calore, un rischio soprattutto per gli anziani, un piano coerente deve implementare delle misure specifiche per gli anziani che vivono in città. E non solo, il piano deve anche mettere in atto strategie di monitoraggio per valutare se la vulnerabilità degli anziani alle ondate di calore si riduce grazie alle misure adottate”.
Delle 327 città esaminate nella ricerca, solo il 51% ha un piano di adattamento. Il maggior numero è presente nel Regno Unito, in Polonia, in Francia e in Germania. Per quel che riguarda l’aspetto della coerenza dei piani di adattamento i risultati sono deludenti: il punteggio medio ottenuto dal campione delle città è di 34 su 100, appena un terzo del punteggio totale possibile. In media quindi i piani di adattamento devono migliorare la loro efficacia per garantire una protezione sufficiente contro i futuri rischi climatici.
Le città di Galway e Dublino, in Irlanda, e Sofia, in Bulgaria, sono quelle che hanno ottenuto i punteggi più alti per la coerenza dei piani. In particolare, il piano di Galway (65/100) ha sviluppato un’ampia gamma di misure e gestisce con successo i rischi climatici. Per la capitale bulgara (63/100), al secondo posto, il piano ha prestato particolare attenzione ai gruppi sociali vulnerabili e ha incluso nella sua strategia misure per quasi tutti i settori economici e sociali. Invece Dublino (61/100) si distingue perché propone di valutare gli obiettivi stabiliti in modo quantitativo e, secondo i ricercatori, il piano descrive in maniera ben strutturata gli strumenti di attuazione, le priorità, le responsabilità, le tempistiche e il budget.
Le città italiane prese in considerazione sono 32, rappresentano il 30% delle Province italiane e il 54% della popolazione. Al 2020 appena due avevano sviluppato un piano di adattamento, Bologna (53/100) e Ancona (33/100). Solo negli ultimi due anni altre città italiane si sono aggiunte: Milano, Cesena, Torino, Bolzano, per citarne alcune. “C’è una diversità geografica per quel che riguarda la pianificazione climatica. Ci sono nazioni e aree geografiche che hanno già uno storico consolidato: penso a Germania, Svezia, Danimarca, Gran Bretagna. In altre aree geografiche, come ad esempio quella mediterranea, una vera pianificazione climatica non esisteva”, racconta Salvia.
Una svolta in Italia si è avuta con il Patto dei sindaci (Covenant of Mayors), una rete transnazionale di enti locali creata nel 2008 e supportata dalla Commissione europea. “Laddove mancava una pianificazione a livello nazionale o regionale, questa iniziativa ha fatto sì che le città si allineassero direttamente agli obiettivi europei senza il tramite del governo centrale. I sindaci aderiscono in forma volontaria e prendono l’impegno politico di presentare, entro due anni dall’adesione, un piano climatico. All’inizio era il cosiddetto Paes, Piano d’azione per l’energia sostenibile, un piano essenzialmente di riduzione delle emissioni. Nel 2017 si è passati a un piano integrato di mitigazione e adattamento, il Paesc, Piano d’azione per l’energia sostenibile e il clima. I sindaci italiani hanno aderito con entusiasmo e sviluppato principalmente Paes, mentre per i Paesc dobbiamo attendere ancora qualche anno”.
Il ritardo delle città italiane sull’adattamento ha quindi una ragione legata alla politica interna del Paese ma anche all’influenza del contesto internazionale, continua Salvia: “L’attenzione generale fino a questo momento è stata sulla riduzione delle emissioni. Adesso che stiamo capendo che gli impatti già ci sono, le città sentono l’urgenza di correre ai ripari con l’adattamento”.
La prossima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop28) sarà l’occasione per fare il punto sui progressi compiuti in termini di mitigazione e adattamento, attraverso un processo di revisione chiamato Global Stocktake. L’Italia non ha ancora approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc). Una prima bozza era stata presentata dal ministero dell’Ambiente nel 2017, rimasta per anni bloccata e dimenticata. A fine dicembre 2022, il ministero ha pubblicato un documento aggiornato, ora in fase di consultazione pubblica fino a metà aprile. Nella ricerca pubblicata su Nature si sottolinea come un obbligo stabilito per legge possa essere uno strumento importante per l’implementazione di misure di adattamento a livello locale. Nel campione analizzato, ben un terzo delle città hanno un piano perché richiesto da una legge nazionale, regionale o locale. “In Irlanda il governo ha obbligato le città a produrre piani di adattamento. In base al nostro indice, le città irlandesi hanno punteggi alti. Galway in particolare è riuscita a migliorare la qualità dei suoi piani perché produce dei rapporti annuali per valutare come sta andando l’implementazione. Questo perché un piano di adattamento è un processo, una condivisione di conoscenze. Deve essere continuamente aggiornato e raffinato in funzione di come evolve la situazione. In questo senso il monitoraggio e la valutazione delle misure nel tempo sono componenti fondamentali”, spiega Filomena Pietrapertosa, ricercatrice dell’Imaa-Cnr e tra le autrici dello studio.
Un aspetto sottolineato dalla ricerca è che i piani urbani di adattamento più recenti sono generalmente migliori dei più vecchi. Seppur lieve, si evidenzia un avanzamento nella qualità della pianificazione, mentre rimangono troppo bassi i punteggi che valutano il coinvolgimento dei diversi attori sociali durante la creazione del piano e il monitoraggio e la valutazione delle misure.
Eppure, chiarisce Pietrapertosa, per una strategia di adattamento di successo è necessario il coinvolgimento dei diversi attori sociali sin dall’inizio, in modo da condividere con loro gli obiettivi e l’utilità delle misure prese: “Quando si parla di adattamento, si parla di adattamento a situazioni di rischio provenienti dai cambiamenti climatici. È ovvio quindi che la partecipazione è vitale per migliorare le competenze della comunità, promuovere la formazione delle persone e produrre il cambiamento comportamentale necessario a proteggersi. Un po’ come avviene con la gestione del rischio dei terremoti”.
La bozza del Pnacc evidenzia l’importanza di attuare azioni di adattamento nel territorio italiano, già esposto a diversi rischi naturali (fenomeni di dissesto, alluvioni, erosione delle coste, carenza idrica) e situato nel cosiddetto “hotspot mediterraneo”, un’area identificata come particolarmente vulnerabile agli effetti dei cambiamenti climatici (siccità, ondate di caldo, venti, piogge intense). “L’inerzia dei Comuni italiani finora si deve a diversi fattori. Spesso non hanno le capacità tecniche per redigere piani di questo tipo per cui i sindaci, non avendo neanche a disposizione specifici finanziamenti, sono spinti a convogliare le risorse verso altre esigenze che percepiscono come più urgenti”. Secondo l’analisi dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis) la bozza del piano italiano è ancora carente nell’affrontare questi problemi. Sul piano operativo, manca una definizione di regole, ruoli e compiti da svolgere e non è affrontata la questione dei finanziamenti da destinare alle amministrazioni regionali e locali per l’attuazione delle misure di adattamento.
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