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Crisi climatica / Approfondimento

La crisi climatica impone una riforma del modello delle banche di sviluppo

© Markus Krisetya / Unsplash

Aumentare i finanziamenti verso i Paesi a basso e medio reddito colpiti dai cambiamenti climatici è urgente. Gli Stati più ricchi, però, non mantengono le promesse e propongono vecchie ricette orientate al privato. Facciamo il punto

Tratto da Altreconomia 256 — Febbraio 2023

Gli effetti prolungati della pandemia da Covid-19, l’invasione russa dell’Ucraina, insieme agli impatti dei cambiamenti climatici hanno causato un rallentamento dell’economia globale, definito dalla Banca mondiale il più forte degli ultimi vent’anni. A livello internazionale c’è un’enorme necessità di aumentare i finanziamenti verso i Paesi in via di sviluppo e in particolare per quanto riguarda le politiche del clima, settore strettamente collegato allo sviluppo poiché i suoi impatti riguardano vari settori socio-economici. Questi Stati chiedono una riforma del sistema per la finanza climatica e, in particolare, dei meccanismi che regolano l’erogazione di denaro da parte delle banche multilaterali di sviluppo (come Banca mondiale) e del Fondo monetario internazionale (Fmi). L’Agenda di Bridgetown promossa da Mia Amor Mottley, primo ministro delle Barbados -uno dei piccoli Stati insulari considerati dalle Nazioni Unite particolarmente vulnerabili dal punto di vista sociale, economico e ambientale- è forse la spinta più nota alla riforma, ma ci sono anche le proposte del gruppo dei Paesi vulnerabili V20 che rappresentano bisogni e preoccupazioni di un gruppo più ampio, dall’Etiopia, al Nepal, alle Samoa. 

“Le risorse a disposizione per la finanza climatica sono insufficienti rispetto alle esigenze. Nonostante le promesse, i Paesi ricchi stanno fallendo nel trasferire fondi a quelli più poveri”, spiega Chiara Mariotti, economista all’European network on debt and development (Eurodad), rete di organizzazioni della società civile che si occupa di finanza internazionale. L’Fmi ha iniziato solo recentemente a occuparsi di questi temi. Ha creato uno specifico fondo per il clima (il Resilience and sustainability trust), e ha iniziato a fornire raccomandazioni agli Stati su come usare i finanziamenti e fare gli investimenti. “Il limite principale di questo fondo è che continua a erogare prestiti accompagnati da condizionalità, attraverso le quali si richiedono riforme economiche -commenta Mariotti-. Storicamente questo ha significato tagli alla spesa pubblica, austerità, privatizzazioni. Anche se ora il sistema è migliorato, rimane la logica di fondo: il primato del privato sul pubblico. E questo vale anche per il Resilience and sustainabiliy trust”.

A causa delle molteplici crisi in atto, le economie in via di sviluppo stanno attualmente attraversando una grave crisi del debito pubblico. Il reportAvoiding ‘Too little too late’ on international debt relief” pubblicato a dicembre 2022 dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) conclude che 54 Paesi a medio-basso reddito hanno gravi problemi di indebitamento e la situazione è particolarmente grave per quelli più vulnerabili ai cambiamenti climatici. “I pochi finanziamenti per il clima vengono concessi soprattutto sotto forma di prestito e questo potrebbe peggiorare la situazione -continua Mariotti-. Misure per l’adattamento o per intervenire sui danni dovrebbero ricevere finanziamenti a fondo perduto, perché difficilmente possono produrre un ritorno di investimenti tale da coprire gli interessi di un prestito”. 

Dai dati Ocse sull’impegno preso dai Paesi sviluppati per fornire 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 (fallito) a sostegno dell’azione per il clima in quelli in via di sviluppo, in media il 70% dei finanziamenti è stato concesso tramite prestiti, per il periodo 2016-2020. Una percentuale che sale al 91% per quelli erogati dalle banche multilaterali di sviluppo. 

In generale, i contributi sono concentrati in gran parte sulle attività di mitigazione in pochi Stati ad alte emissioni. Secondo le stime del Climate policy initiative (Cpi), organizzazione indipendente di esperti in campo finanziario e politico, tra il 2011 e il 2020 i finanziamenti pubblici e privati per il clima sono quasi raddoppiati, raggiungendo una media annua di 480 miliardi di dollari. Eppure questi livelli di crescita non sono sufficienti: per evitare gli impatti peggiori, secondo gli esperti del Cpi, sono necessari investimenti per 4.300 miliardi di dollari all’anno da qui al 2030. Anche perché il 75% si è concentrato finora in Nord America, Europa occidentale e Asia orientale e Pacifico (principalmente Cina), mentre i Paesi a medio-basso reddito hanno ricevuto meno del 25% dei flussi. 

Nel 2021 il G20 ha commissionato una valutazione indipendente, per capire se le banche multilaterali stanno usando in modo adeguato i fondi per finanziare gli Stati più fragili, anche con l’obiettivo di sbloccare ulteriori risorse. Più recentemente, il G7 ha incaricato la direzione della Banca mondiale di iniziare un processo di aggiornamento della sua missione, dei modelli operativi e degli strumenti per affrontare sfide globali come i cambiamenti climatici. “Al momento questo istituto sta concedendo grandi quantità di finanziamenti”, spiega Annalisa Prizzon, ricercatrice per Odi think tank indipendente con sede a Londra che si occupa di sviluppo internazionale e questioni umanitarie. “Le risorse ora ci sono, ma senza un aumento del capitale, quindi più denaro da parte degli Stati ad alto reddito, la Banca non potrà continuare a sostenere questi livelli: per non compromettere la sua stabilità finanziaria deve mantenere un certo rapporto tra prestiti emessi e capitale disponibile”. Tra le proposte per aumentare le risorse c’è anche la riduzione di questo rapporto, che permetterebbe di usare più capitale.

Sono 54 i Paesi a medio-basso reddito che hanno gravi problemi di indebitamento secondo le stime del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. La situazione è particolarmente preoccupante per quelli più vulnerabili ai cambiamenti climatici

I due principali bracci operativi attraverso i quali la Banca mondiale distribuisce finanziamenti sono la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Ibrd) e l’Agenzia internazionale per lo sviluppo (Ida). La prima funziona tramite un sistema di quote, stabilite sulla base della ricchezza economica dei 189 Paesi che ne fanno parte. Ai vertici ci sono gli Stati Uniti, seguiti da Giappone, Cina, Germania, Francia e Regno Unito. Le quote stabiliscono la quantità di denaro con il quale un Paese finanzia il capitale della banca e il suo potere di voto all’interno dell’istituzione. 

Per quanto riguarda l’Ida, invece, il sistema prevede che gli Stati ricchi, ogni tre anni, garantiscano donazioni da destinare ai 74 più poveri, sotto forma di finanziamenti a fondo perduto o prestiti per i quali vengono pagate solo basse commissioni di gestione. I criteri con i quali viene deciso se un Paese può ricevere denaro si basano su reddito pro-capite e livello di povertà, sull’impatto previsto e la capacità di attuazione dei progetti, sulla capacità di restituzione del debito per l’accesso all’Ibrd e la sostenibilità del debito pubblico per l’accesso all’Ida. La vulnerabilità ai cambiamenti climatici non viene presa direttamente in considerazione.

La media annuale dei finanziamenti pubblici e privati per il clima nel periodo 2011-2020 ammonta a 480 miliardi di dollari. Secondo le stime del Climate policy initiative servirebbero investimenti per 4.300 miliardi di dollari all’anno

“I governi con poche risorse da investire nello sviluppo trovano poco conveniente chiedere alle banche multilaterali finanziamenti per il clima -continua Prizzon-. Non essendo, per la maggior parte, grandi emettitori di gas climalteranti, non vogliono pagare di propria tasca, attraverso gli interessi dei prestiti, la transizione ecologica. Chiedono quindi condizioni ulteriormente agevolate, finanziamenti a fondo perduto o tassi ancora più bassi, poiché le ricadute positive delle loro misure sono globali”. Il processo di negoziazione per la riforma tra i Paesi finanziatori della Banca mondiale è già iniziato, documentato anche da una tabella di marcia condivisa a dicembre 2022 che ha l’obiettivo di presentare le proposte di riforma nell’ottobre 2023. Il documento include l’ipotesi di aumentare il capitale a disposizione dell’Ibrd e l’istituzione di un fondo aggiuntivo per fornire finanziamenti agevolati a favore dei cosiddetti beni pubblici globali, come le misure di contrasto ai cambiamenti climatici, che dovrebbero più facilmente raggiungere i Paesi a reddito medio-basso.

Un’altra proposta prevede che le economie sviluppate aumentino i contributi all’Ida (che negli ultimi anni sono calati, nonostante le crescenti necessità) per aumentare la disponibilità di finanziamenti a fondo perduto. Inoltre, data la grande quantità di risorse necessarie, Banca mondiale pensa a nuovi strumenti di finanziamento per stimolare gli investimenti dei privati. Per Eurodad, sia i tentativi di rinnovamento dell’istituto, sia le soluzioni oggi proposte dal Fondo monetario internazionale rischiano di promuovere l’uso di fondi pubblici per ridurre il rischio per gli investimenti privati, stimolando la finanziarizzazione dello sviluppo e dell’azione per il clima con costi per gli Stati. Per alcune organizzazioni e governi, preliminare a ogni nuova iniziativa, deve essere un cambiamento profondo delle istituzioni: una riforma anche del sistema di quote e di voti, più equamente rappresentativo, che non concentri il potere nelle mani degli Stati del Nord del mondo, ma garantisca ai Paesi in via di sviluppo capacità di influenzare le decisioni, sul modello dei meccanismi delle Nazioni Unite.  

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