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Finanza / Opinioni

La Russia è davvero a rischio default?

Da più parti si alimenta l’idea che Mosca sia sull’orlo del fallimento, incapace di pagare una tranche del proprio debito in dollari. Non sembra essere così. Il punto della situazione ed elementi utili per comprendere il ruolo degli speculatori puri in questa “roulette finanziaria”. L’analisi di Alessandro Volpi

© Natalya Letunova - Unsplash

I giornali italiani annunciano con grande rilievo un possibile default, un fallimento, della Russia determinato dalla sua impossibilità di pagare una tranche del proprio debito in dollari. Il governo degli Stati Uniti, tramite il Dipartimento al Tesoro, non consentirebbe infatti più alle banche americane di pagare per conto della Russia le obbligazioni in scadenza. In realtà è forse utile chiarire meglio che cosa significherebbe un “default russo”.

In questo momento la Russia ha un debito pubblico molto basso, meno di 300 miliardi di dollari rispetto ad un Prodotto interno lordo di quasi 1.700 miliardi di dollari. Si tratta, peraltro, di un debito collocato all’estero solo in minima parte, per circa una ventina di miliardi di dollari l’anno. Dunque, grazie al prezzo stellare dell’energia siamo di fronte ad una quantità di titoli assai contenuta, il cui mancato collocamento non comporterebbe grossi problemi per la Federazione russa, come del resto dimostra la sostanziale tenuta del rublo e la riduzione, dopo un iniziale incremento, dei tassi d’interesse. Semmai il mancato pagamento metterebbe in difficoltà i creditori esteri che detengono quelle somme e più in generale le banche estere che sono esposte su più piani con la Russia, non tanto sul versante del debito ma su quello dei crediti concessi a società pubbliche, e private russe, i cui rating si ridurrebbero mettendo a repentaglio crediti “occidentali” per un centinaio di miliardi. In estrema sintesi un eventuale default russo oggi non avrebbe nulla a che vedere con quello del 1998 che colpiva un’economia sgangheratissima e dipendente dai capitali esteri; ad essere danneggiati sarebbero piuttosto i creditori internazionali più esposti in Russia, tra cui appunto alcune banche italiane.

Si ha quindi l’impressione che esista una narrazione destinata ad alimentare l’idea di una Russia sull’orlo del baratro e finalizzata a giustificare l’ulteriore invio di armi, quasi si trattasse dell’ultima spinta finale. Purtroppo non sembra essere così. C’è però un aspetto meno noto che merita di essere messo in evidenza relativo a questo continuo richiamo ad un possibile fallimento russo. In queste settimane si sono impennati i prezzi dei cosiddetti credit default swap sul debito russo; in altre parole, si sono impennati i prezzi delle “assicurazioni” contro il rischio di un fallimento russo, cresciuti di oltre l’80%. A questo riguardo occorre far notare che, normalmente, tali assicurazioni dovrebbero essere comprate da chi ha titoli del debito russo per assicurarsi contro il pericolo del suo fallimento. In verità la quasi totalità di queste assicurazioni sono comprate da soggetti che non hanno titoli del debito russo ma vogliono lucrare sulle assicurazioni in quanto tali.

In sintesi, comprano l’assicurazione a 10, immaginano che le notizie sul probabile fallimento del debito facciano salire il prezzo di quell’assicurazione e, in effetti, vendono a 20 a qualcuno che scommette che il prezzo salirà ancora. Intanto la stampa e i media gridano che la Russia sta per fallire e il gioco è fatto. Del resto, quanto sta accadendo in relazione al debito russo è avvenuto e avviene per i titoli del debito pubblico di molti Paesi, soprattutto nel caso in cui siano particolarmente deboli; in quei casi si scommette sul “fallimento” vero e proprio perché chi ha comprato l’assicurazione -naturalmente senza il titolo di debito- punta a farsi pagare la polizia e le dinamiche dei prezzi si basano proprio sul rapporto tra prezzo dell’assicurazione e valore della “polizza”. Per le migliaia di speculatori puri non conta neppure la polizza perché l’idea è di vendere all’ultimissimo giro. Siamo nel regno della roulette finanziaria, che questa volta è “russa” ma che purtroppo ormai è la chiave del turbocapitalismo; almeno fino a quando non si deciderà di vendere le “assicurazioni” solo a chi ha il titolo assicurato; in fondo non sarebbe così difficile.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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