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Terra e cibo / Intervista

La rivoluzione agricola araba, alle radici di ciò che mangiamo oggi

© Evie S. - Unsplash

Tra 700 e 1100 l’espansione dei popoli arabi ha portato in Occidente nuove specie vegetali (tra cui arance, riso e melanzane) e tecniche che hanno migliorato la resa dei suoli, promuovendo la biodiversità agricola. Una storia raccontata 50 anni fa dallo storico inglese Andrew M. Watson e che oggi Piero Bevilacqua tiene viva in un libro

Sono passati quasi cinquant’anni dalla pubblicazione del saggio di Andrew M. Watson dedicato alla Rivoluzione agricola araba, un testo di grande attualità perché parla di biodiversità e di tutela della fertilità del suolo, di agricoltura contadina e di una specie di riforma agraria. “Rappresenta il condensato di vent’anni di studio e viaggi compiuti da questo bravissimo storico inglese”, racconta ad Altreconomia Piero Bevilacqua, già ordinario di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma.

Bevilacqua firma l’introduzione alla prima edizione italiana dello studio di Watson, pubblicato da Slow food editore, con saggi di Roberta Biasillo, già allieva di Bevilacqua, oggi storica dell’Ambiente e docente di Storia politica presso l’Università di Utrecht, in Olanda (che ha curato anche la traduzione) e di Paolo Squatriti, docente all’Università del Michigan.

“The Arab agricoltural revolution and its diffusion, 700-1100” (pubblicato nel 1974 sulla rivista The Journal of economic history) ripercorre la storia dell’espansione dei popoli arabi, che ha portato alla conquista di enormi porzioni di territorio tra il Mediterraneo, l’Africa e il Medio Oriente, concentrandosi su un aspetto fino ad allora poco studiato: il ruolo che questi ebbero nella diffusione di diverse specie vegetali (come gli agrumi e il riso asiatico) e nel miglioramento dei sistemi agrari.

Professor Bevilacqua, perché leggere questo libro oggi?
PB Da appassionato di storia dell’agricoltura mi ci ero imbattuto per caso, in biblioteca. Riprendendolo in mano più recentemente ho compreso appieno la ragione del titolo nella promozione che gli arabi hanno fatto della biodiversità agricola, un tema di attualità straordinaria e di cui si sa poco, sia in termini storici, sia scientifici. Il concetto di biodiversità agricola racconta la capacità di trasformare la ricchezza spontanea della fertilità naturale, le piante selvatiche, attraverso la manipolazione da parte dei contadini: naturale e al tempo stesso storica. Con diverse attitudini, nel corso del tempo i contadini hanno utilizzato e trasformato, migliorato, adattato e acclimatato le piante. Quei secoli ci hanno regalato, tra gli altri, spinaci, melanzane, carciofi, agrumi e riso. È un capolavoro storico, la fusione di natura e cultura umana. Un patrimonio da salvare, non solo dal punto di vista alimentare.

Che cosa ha lasciato, invece, quella rivoluzione agricola, nel modo di coltivare?
PB L’agricoltura del mondo antico, in Occidente, si limitava a una stagionalità ristretta: le piante, i seminativi, cereali, legumi, si piantavano in autunno e si raccoglievano in primavera; l’estate era una stagione morta, improduttiva, a causa del caldo, della siccità. Con l’irrigazione e con l’utilizzo di alcune piante che amano il caldo -come la melanzana- i contadini poterono usare crescenti superfici di suolo che prima restavano incolte. Questo aspetto contribuiva sia sotto il profilo quantitativo, sia qualitativo alla ricchezza del paniere alimentare che i campi offrivano. Studiando l’agricoltura europea in età moderna, è impressionante constatare quanto fossero basse le rese del grano: da un seme germinava una spiga con cinque chicchi, esponendo le popolazioni al rischio di carestie. Il numero di abitanti, inoltre, cresceva poco proprio in ragione della scarsità di cibo, mentre nel mondo arabo medievale c’era abbondanza anche perché l’irrigazione è una forma di fertilizzazione della terra, che aumenta la potenza biologica delle piante.

Un’altra pratica introdotta per la prima volta è quella della rotazione agraria.
PB La biodiversità si collega a diverse forme di rotazione e utilizzo intensivo del suolo. Gli arabi già lo facevano, consapevoli che altrimenti il terreno sarebbe morto: conoscevano la proprietà delle piante e la forza di estrazione di minerali dal suolo, così cambiavano la destinazione delle quote. Leguminose, fave, trifoglio ed erba medica arricchiscono il terreno di azoto; il grano lo depaupera. Anche la Rivoluzione agricola inglese, nel Settecento, si sarebbe fondata su questa importante alternanza che oggi non viene più messa in pratica, tranne che nell’agricoltura biologica. E del resto l’uso delle foraggere era descritta anche dallo scrittore latino Lucio Columella del primo secolo dopo Cristo nel “De re rustica”.

C’è, infine, un ultimo aspetto centrale, legato al ruolo dello Stato, che non dovrebbe limitarsi a quello di erogatore di fondi della politica agricola comune.
PB Lo Stato svolge un ruolo molto importante. E ancor più oggi, in epoca di dominio del pensiero unico neoliberista, vedere l’apporto in questa straordinaria imprese di un popolo è veramente significativo. Intanto, perché lo Stato è intervenuto con investimenti cospicui per creare sistemi di irrigazione nelle zone aride: da qui è partita la Rivoluzione agricola araba, in origine un popolo nomade di pastori, che di agricoltura ne masticava poca.

L’acqua faceva la differenza: come idraulici erano bravissimi, la piccola irrigazione la facevano i privati ma i grandi invasi, le opere più costose, erano realizzate dallo Stato, mettendo a disposizione ingenti risorse, offrendo ai contadini la possibilità di usare i canali di deviazione. Poi c’erano leggi per la protezione dei contadini: coloro che sfruttavano un terreno che era rimasto incolto, avevano possibilità di diventarne proprietari. Accanto a questo, c’erano facilitazioni fiscali per i contadini che miglioravano il terreno. Era una forma di incentivazione straordinaria, che spingeva i ceti più poveri a usare le terre disponibili per affrancare dalla miseria la propria famiglia. Inoltre, vincolando e rendendo stabile la presenza degli uomini sulla terra, si è favorito un processo di colonizzazione di terre prime incolte, anche in quelle che oggi chiamiamo aree interne.

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