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La “pulsione di morte” e la logica rovesciata di capitalismo e nazionalismi

© Ron Szalat - Unsplash

Nel 1929 Sigmund Freud la descrive come una pulsione autodistruttiva insita nel genere umano. Oggi questo principio è il cuore della globalizzazione e regola i rapporti tra Stati, individui, multinazionali e gruppi speculativi che si muovono in uno schema bellico votato alla sopraffazione dell’altro. Le “idee eretiche” di Roberto Mancini

Tratto da Altreconomia 264 — Novembre 2023

La pulsione di morte. Nel 1929 Sigmund Freud la indicò come la tentazione di autodistruzione insita negli uomini. Nella costituzione naturale di ogni vivente c’è la tendenza a portare a termine il corso della vita, a un certo punto. Essendo la vita faticosa, nella morte ciascuno inconsapevolmente cerca la pace: l’organico vuole infine risolversi nell’inorganico. Ma Freud sa bene che per gli esseri umani la pulsione di morte non è solo una spinta naturale a concludere l’esistenza; può diventare, più pericolosamente, l’inclinazione alla distruttività. È una forza capace di insinuarsi negli atteggiamenti, nei comportamenti, nella cultura, sino a sovrastare la tendenza vitale al piacere e alla creatività. Dopo Freud altri studiosi -come Erich Fromm, Franz Neumann e Paul Ricoeur- hanno sottolineato che naturale è l’aggressività, non la distruttività e la passione di uccidere, che semmai sono perversioni.

Ma in tali analisi il rovesciamento che porta a sacrificare la vita, le persone e il mondo per il piacere di distruggere figura ancora come un’anomalia, per quanto diffusa ed esplosa oltremisura in occasione delle guerre mondiali.

Dalla nostra prospettiva attuale siamo costretti ad ammettere che la sfida è più radicale. Perché è il modo di strutturare la condizione umana che si fonda sempre più, nella società globalizzata, su un principio di morte organizzato e applicato variamente. Anzitutto, singoli, gruppi sociali, imprese e Stati si muovono normalmente secondo uno schema bellico, che prevede di affermare sé stessi in un regime di perenne rivalità nei confronti degli altri. Le differenze diventano divergenze e queste impongono la guerra in forma ideologica, religiosa, economica, persecutoria o apertamente cruenta. Quello che la psichiatria chiama un disturbo paranoide di personalità in effetti è in molti casi l’orientamento generale di ogni soggetto individuale, collettivo o istituzionale.

Inoltre, il ricorso a strumenti e processi di mortificazione a danno di chi è “altro” è considerato fonte di profitto, di potere, di successo, come se fosse un modo inevitabile e vantaggioso di stare al mondo. Per le classi sociali, le multinazionali, i gruppi speculativi e gli Stati che si muovono con lo schema bellico tutto il resto del mondo risulta “altro” e irrilevante, quindi eliminabile. La distruzione allora non importa o, spesso, può pure essere motivo di gioia. Infine, nel sistema mortifero della società globale permane la coazione a riprodurre le condizioni della vita sul fondamento di aggressioni, traumi e distruzioni incessanti sempre più gravi, come se esse sole garantissero sopravvivenza, progresso e futuro. Si accelera nel riarmo, nella persecuzione, nel terrore, nel misconoscere che ogni distruzione è autodistruzione solo rimandata.

Guarendo dalla logica del potere si scopre che vivere è convivere. Con chiunque. Si sprigiona così l’amore politico che spezza la logica di guerra del capitalismo e dei nazionalismi

La ferocia in Ucraina, Palestina, Israele, Siria, Yemen, Nagorno Karabakh e in molti altri luoghi, così come l’aggressione sistematica contro le donne, i giovani, i poveri, i migranti, la natura, sono la conseguenza del sistema di guerra. Oggi la pulsione mortifera scoperta da Freud non è un’inclinazione naturale, è il sistema stesso della globalizzazione, che risulta così costruito: alla superficie il capitalismo, a un livello intermedio il circuito della logica del potere e, più in profondità, la pulsione di morte come regola tragica della vita comune. È la morte artificiale come fondamento e motore dell’ordine globale. Perciò a ogni livello dell’esistenza umana è urgente spezzare questa spirale, sradicare lo schema bellico, prendere attivamente posizione tra i contendenti distinguendo non le bandiere, ma la differenza tra chi esegue gli ordini della morte e chi sceglie la nonviolenza. Occorre rigenerare la politica lungo la via dell’azione nonviolenta e riparativa. Un impegno simile, l’unico che apra la salvezza dell’umanità, esige di verificare noi stessi e le nostre organizzazioni per capire se siamo ancora immersi nello schema bellico o siamo capaci di coltivare la pace con la forza dell’amore politico.

Roberto Mancini insegna Filosofia teoretica all’Università di Macerata; il suo libro più recente è “La terra che verrà. Percorsi di trasformazione etica dell’economia” (Ecra edizioni, 2023)

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