Diritti / Attualità
La libertà di stampa messa a rischio dal Coronavirus
Dal diffondersi dell’epidemia, sono state segnalate aggressioni e arresti di giornalisti che stavano lavorando sul Covid-19. Una situazione cui si aggiungono leggi e decreti, come il caso dell’Ungheria e della Serbia, che hanno posto restrizioni e limitato il lavoro della stampa
L’ufficio dell’International Federation of Journalists (IFJ) di Bruxelles è diventato un ospedale da campo lo stesso giorno in cui a Wuhan, in Cina, si sono contate le prime vittime del Coronavirus. Ogni giorno sono arrivate nuove richieste di aiuto dalle circa 187 sigle sindacali affiliate all’IFJ: i giornalisti erano aggrediti ovunque.
Nelle Filippine, i giornalisti Mario Batuigas e Amor Virata di Latigo News TV rischiano due mesi di carcere per un reportage sul Covid-19. In Venezuela, i giornalisti Darvinson Rojas di TW e Beatríz Rodríguez di Verdad de Vargas sono stati arrestati per avere documentato casi positivi a Caracas. In Ucraina, la giornalista Tetiana Sivokon di NewsOne è stata aggredita durante un’inchiesta sul traffico illegale di mascherine. Oltre agli arresti e alle aggressioni personali, ci sono anche le leggi e i decreti. Il 30 marzo, il governo iraniano ha vietato la pubblicazione di qualsiasi giornale cartaceo. Il 3 aprile, il governo iracheno ha vietato per tre mesi l’attività dell’agenzia di stampa Reuters in seguito a un’inchiesta sul reale numero dei contagiati.
È ancora troppo presto per avere contezza di quanti siano i sommersi e quanti invece i salvati. In un articolo pubblicato il 25 marzo sulla Columbian Journalistic Review, il direttore esecutivo del Commitee to Protect Journalists (CPJ) di Washington Joel Simon scriveva che la sua agenzia conta ben 250 giornalisti in prigione. Anche la One Free Press Coalition, composta da 40 media corporations, ha confermato questo trend pericoloso che potrebbe diventare più nitido per la fine dell’estate. Ogni mese viene pubblicata sul loro sito una lista con i dieci casi più urgenti, e gravi, di violazione della libertà di stampa. Nell’ultimo elenco, ci sono solo i nomi e i cognomi di giornalisti che stavano lavorando sul Coronavirus.
Le ripercussioni contro i giornalisti -iniziate in Paesi dove la democrazia è messa costantemente in dubbio come il Venezuela di Nicolas Maduro e le Filippine di Rodrigo Duterte- hanno finito per “infettare” anche il Vecchio Continente all’indomani dello scontro diplomatico tra Stati Uniti e Cina. Dopo un lungo scontro, durato i mesi di febbraio e marzo, si è arrivati a drastiche decisioni che volutamente hanno preso di mira il lavoro della stampa. L’apice è stato raggiunto quando il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha annunciato di espatriare i corrispondenti stranieri delle più importanti testate giornalistiche americane da Hong Kong e da Macau. Un’escalation che era però iniziata a febbraio quando il presidente Usa Donald Trump ha definito “ostile”, la presenza in territorio americano dei giornalisti di Xinhua, CGTN, China Radio, China Daily e People’s Daily perché al “soldo del governo cinese”.
In Europa, ad avere scandalizzato è stato il primo ministro dell’Ungheria Viktor Orbán quando, lo scorso 30 marzo, si è fatto attribuire pieni poteri per fare fronte all’emergenza e per infliggere pene fino a cinque anni di carcere ai giornalisti che diffondevano false notizie sul Coronavirus. Ma esattamente due settimane prima, il Presidente della Romania Klaus Werner Iohannis aveva firmato un decreto urgente per fronteggiare la pandemia in cui dava incarico alla National Authority for Administration and Regulation in Communications (ANCOM) di chiudere i siti d’informazione che diffondessero fake news. In decreto è stato fortemente osteggiato dal Romanian Center for Independent Journalism. La Serbia del Presidente Aleksandar Vučić ha varato il 28 marzo un decreto di cinque punti che vietava ai giornalisti di lavorare a fonti indipendenti sul tema Coronavirus, obbligandoli ad attenersi esclusivamente ai comunicati del primo ministro e della sua task force sanitaria. All’indomani della legge, veniva disposta la custodia cautelare per la giornalista Ani Lalìc in seguito a un’inchiesta condotta sulla clinica sanitaria di Vojvodina. Una grande reazione da parte dei sindacati dei giornalisti serbi, della società civile e dell’OCSE ha costretto il primo ministro Ana Brnabic a ritirare la legge il 2 aprile, il giorno stesso in cui Ani Lalìc era rilasciata. Paesi come Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia hanno dato avvio a un sistema di conferenze stampe online per aggiornare i giornalisti e garantire loro il diritto di replica. In altri Paesi si è deciso di abbassare le serrande. Il ministro delle finanze irlandese, Paschal Donohoe, rendeva noto a inizio aprile che il suo ufficio avrebbe risposto alle sole domande scritte fatte pervenire da remoto. Nella Spagna di Pedro Sanchez, l’esecutivo comunica con i giornalisti attraverso un gruppo WhatsApp di 220 iscritti: ogni giornalista condivide la sua domanda e alla sera, in diretta Facebook, vengono date le risposte. I sindacati dei giornalisti spagnoli sono sulle barricate da giorni.
Per tutto questo esiste un solo vaccino: l’unità. Il 25 marzo l’IFJ, insieme ad altre nove organizzazioni giornalistiche mondiali, aveva mandato una lettera ai massimi vertici dell’Unione europea per chiedere di contrastare i ricorrenti attacchi alla libertà di stampa in Europa. “In alcuni Paesi europei sono state imposte molte restrizioni al lavoro dei giornalisti che ora faticano a mettersi in contatto con personale medico ed esponenti di governo”, aveva spiegato il segretario generale dell’IFJ, Anthony Bellanger. “È tempo che le più grandi organizzazioni mondiali per la protezione dei diritti umani si uniscano per proteggere la libertà di stampa e la libera circolazione delle notizie anche qui da noi”.
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