Diritti / Opinioni
Inditex (Zara) ci ha scritto dopo un articolo sui 10 anni dal crollo del Rana Plaza in Bangladesh
C’è chi vuole riscrivere la storia della terribile strage del Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh, dove 10 anni fa morirono oltre 1.130 persone in una fabbrica tessile. Il caso della multinazionale della fast fashion Inditex e il ruolo dell’informazione indipendente. L’editoriale del direttore, Duccio Facchini
Il colosso della moda Inditex, proprietario del marchio Zara (e di Bershka, Stradivarius, Pull&Bear, Oysho, etc.), ci ha scritto dopo un nostro articolo sui 10 anni dalla strage del Rana Plaza in Bangladesh. Ricorderete: il 24 aprile 2013, a Dacca, crolla uno stabilimento dove lavoravano in condizioni indicibili per diversi marchi della fast fashion circa 5mila persone. Muoiono in 1.138, i feriti sono 2.500.
Il pezzo, firmato da Cristina Borio, prova a rispondere a una domanda semplice: a distanza di dieci anni, come stanno i diritti nell’industria tessile? Nel porre il tema citiamo fatti che ritenevamo pacifici. E cioè che dentro quelle fabbriche c’erano anche fornitori di diversi marchi, tra cui Benetton, Camaieu, El Corte Ingles, Primark, Walmart. E appunto Inditex.
Pochi giorni dopo la pubblicazione, però, quest’ultima ci manda una replica, sostenendo che no, non è vero che avesse “rapporti commerciali con le fabbriche situate nell’edificio del Rana Plaza”. E che anzi, “a seguito di specifiche valutazioni”, ben “due anni prima aveva escluso la possibilità di collaborare con questi stabilimenti”. Quindi la multinazionale da quasi 33 miliardi di dollari di fatturato nel 2022 (1,7 miliardi di euro in Italia attraverso la Itx Italia Srl) ci chiede “cortese rettifica e integrazione”. Letto il messaggio, facciamo una veloce ricerca e notiamo che quella stessa “replica” è già stata pubblicata da altre testate (inclusa l’Ansa).
Inditex, però, risulta tra le imprese “collegate” al crollo secondo la Clean clothes campaign, network composto da 234 organizzazioni (in Italia ha il volto di Abiti puliti), tanto da aver versato 1,63 milioni di dollari nel Rana Plaza donors trust fund per dar sostegno ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime?
Qualcosa non va. Contattiamo di nuovo la Campagna, la quale respinge la versione della multinazionale e ci spedisce, a conferma, delle fotografie scattate sul luogo della strage che proverebbero, ancora una volta, il collegamento di marchi legati a Inditex con il Rana Plaza. Si vede l’etichetta di “Lefties”, allora marchio Inditex (vedi foto in apertura), e una bolla di un subfornitore operante nel palazzo e datata ottobre 2012, cioè pochi mesi prima del collasso (vedi sotto).
Rispondiamo quindi a Inditex che la sua replica è smentita da immagini indiscutibili. La multinazionale ci chiede di vedere gli scatti e noi -d’accordo con la Campagna- glieli mandiamo, chiedendo un chiarimento definitivo. “Eravamo a conoscenza della presenza di alcune immagini isolate e alle quali fate riferimento, in merito alla presenza di Inditex all’interno dell’edificio -è la risposta-. Nello specifico, queste immagini non si riferiscono agli ordini, dal momento che, all’epoca, così come attualmente, avevamo implementato un solido programma di audit e controllo, corredato da documentazioni dettagliate di tutti gli stabilimenti con i quali collaboravamo, necessario per impedire che venissero effettuati ordini in una fabbrica non rientrante nella nostra lista di collaboratori”.
Inditex gioca una carta che parrebbe decisiva: “Tutti i soggetti coinvolti, inclusi l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo, agenzia specializzata delle Nazioni Unite, ndr) e l’IndustriALL Global Union (cioè la federazione sindacale globale, ndr), erano a conoscenza del fatto che avevamo deciso di interrompere la nostra collaborazione con tutte le fabbriche presenti nel complesso dal 2011”.
Non restava quindi che chieder conferma agli interessati. Eravate a conoscenza del fatto che l’azienda aveva deciso di interrompere la collaborazione con tutte le fabbriche presenti nel complesso fin dal 2011? Potete provarlo? Peccato che né l’Ilo né il sindacato abbiano confermato in alcun modo a chi scrive il “racconto” di Inditex.
Ipotizziamo però che la versione di Inditex regga. Rimane un tema che Deborah Lucchetti di Abiti Puliti sintetizza così: “Se l’azienda ha effettuato un audit della fabbrica e poi se n’è andata, questo la rende complice: non ha informato i lavoratori o altri marchi di questo fatto, né ha reso pubblici i risultati delle sue ispezioni. Cioè Inditex non è rimasta per migliorare la sicurezza della fabbrica. Un caso da manuale di tutto ciò che non va nell’audit sociale delle imprese”.
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